TAKAMOVSKY "Sonic counterpoint"
(2016 )
Ho ascoltato “Sonic counterpoint”, secondo album dell’elitario musicista ed autore Juergen Berlakovich - studioso di filologia germanica e residente a Vienna, più noto in campo artistico con lo pseudonimo di Takamovsky - sulla linea verde della metropolitana di Milano, tra le fermate di Assago Forum, dove lavoro, e di Garibaldi, dove scendo e cambio tratta. In una fredda serata di novembre, il vagone era affollato di gente che rientrava a casa dopo una giornata in ufficio. Chi chiacchierava, chi telefonava, chi sonnecchiava, chi giocava col cellulare, chi ancora si adirava al pensiero di quella e-mail del capo. Mi sono seduto, ho messo le cuffiette, ho premuto play. In quel momento, il mio piccolo mondo è diventato una boccia di vetro, io ero il pesce rosso che vi nuotava. Il trambusto, il vociare, lo sferragliare della carrozza: tutto si è spento, sono rimasto risucchiato in un sottovuoto irreale, un isolamento condiviso unicamente con Takamovsky e la sua musica indefinibile, altera, aliena. Al crocevia tra classica contemporanea, ambient, elettronica, sperimentazione ed avanguardia, nelle otto tracce strumentali di “Sonic counterpoint” (soltanto in “Running in the background” si affaccia un canto parlato che ricorda i Koop di “Koop Islands”) Juergen consolida il percorso avviato con “In streams” (2013) delineando atmosfere trasognate, sospese, eteree in un flusso confortevole e suadente edificato sui ricami della chitarra acustica ed insistentemente attraversato da suggestioni glitch, interferenze, ripetizioni minimaliste, elementi microstrutturali elevati a materia compositiva. Lavoro sì puntiglioso nel suo rigore concettuale (il primo e l’ultimo minuto, speculari e circolari, sono una bourrée di Bach), ma placidamente evocativo, quasi mistico, fondato su una ipnotica eleganza che rapisce ed ammalia, l’album si snoda lungo un continuum docile e garbato, un volo a planare scandito da note sgranate e languide che rendono i brani differenti tra loro solo per divagazioni infinitesimali, senza che ciò rappresenti un problema né sottragga interesse all’opera compiuta. Fra la sintesi classico/pop dei Saint Lawrence Verge ed il Pat Metheny più pacato e riflessivo, Takamovsky fornisce della propria personale new-age una interpretazione vibrante e toccante, plasmando il suono della sei corde fino a mutarla in uno strumento altro, cesellando una musica ben più che chitarristica, compendio di sequenze serrate frammiste ad oasi di morbida quiete, trame addolcite da un afflato carezzevole solo sporadicamente screziato da microfratture elettroniche. Fra dilatazioni senza tempo (“Ice”), accenni di melodioso trasporto (“Cinescopi”), onde ritmiche che cullano e rinfrancano (la prodigiosa essenzialità di “Sun”), quello di Berlakovich è un mirabile tentativo – in an expression of the inexpressible - di definire un’idea con un linguaggio di provvidenziale semplicità, un viaggio lontano dalla pazza folla, oltre il clamore, oltre il rumore della vita, oltre qualsiasi capolinea, anche quello di Assago Forum. (Manuel Maverna)