recensioni dischi
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BOB DYLAN  "Desire"
   (1975 )

Maturo sembra sia sempre stato: se non proprio dalla nascita, almeno fin da giovanissimo.

Chi ascolta il suo primo capolavoro “The Freewheelin’ Bob Dylan” fa fatica a convincersi che quella voce spigolosa, quei versi perfetti e taglienti, enunciati con la sicurezza di un predicatore (ma con molti più argomenti), siano potuti uscire dalla testa di quel ragazzo che si vede in copertina.

A metà degli anni ’70 Bob Dylan si trova davvero “nel mezzo del cammin di nostra vita” e la sua maturità anagrafica coincide con una grande rinascita creativa. E’ vero che sul Dylan di questi anni se ne sono lette e sentite di ogni genere: rilassato, imborghesito, traditore, disertore e via dicendo. Ma i critici ideologizzati spesso hanno la rigidità mentale di un talebano: leggendo certi giudizi inappellabili viene il sospetto che non si siano neanche presi il disturbo di ascoltare dischi come “Blood On The Tracks”, “Desire” e “Street Legal”, splendida trilogia del Bob maturo, con al centro proprio “Desire”.

L’ex folksinger con chitarra e armonica, già da dieci anni vero musicista rock, ormai è un raffinato compositore al quale anche il rock comincia a stare un po’ stretto. C’è un marchio di fabbrica che rende inconfondibile questo disco: è il violino di accompagnamento di tradizione ebraica, il “fiddle”. Non solo appare in tutti e 9 i brani, ma ha sempre una parte da protagonista assoluto: con i suoi gemiti e i suoi trilli rende assolutamente intense e struggenti anche le ballate più lunghe. Per la cronaca, la bravissima violinista è una certa Scarlet Rivera, che scomparirà fin dal disco successivo.

Insieme ad una forte ispirazione musicale, Dylan ritrova la capacità di scrivere testi importanti, anche se una parte del merito va data all‘autore teatrale Jacques Levy. “Hurricane”, la travolgente e irresistibile ballata che apre il disco, è un fantastico saggio di neorealismo dylaniano. E’ la storia vera del pugile nero Rubin Carter, incarcerato in seguito ad un raggiro politico-mafioso per un delitto non commesso, proprio quando stava per diventare campione del mondo. Vi si ritrova finalmente la feroce indignazione del Dylan anni ’60.

Capolavoro del tutto diverso è “Sara”, probabilmente la sua più sentita e sofferta poesia d’amore, dedicata alla moglie e seguito ideale di “Sad Eyed Lady Of The Lowlands”. E’ uno di quei ritratti femminili degni di “Blonde On Blonde”, così ben scolpiti da sembrare icone (“Sfinge Scorpione in una veste di calico”, tanto per citare un verso). La tristezza della musica è quella di una spiaggia rimasta deserta come il cuore di chi ha perso la donna della sua vita. Chiude l’album come un sigillo prezioso.

Tra “Hurricane” e “Sara” c’è tutt’altro che il vuoto. “Isis”, altra visionaria figura di donna, si segnala anche per un insolito Bob Dylan al pianoforte, suonato proprio come ci si aspetta da lui, cioè percosso ostinatamente per trarne suoni duri e metallici. “Mozambique” è invece un breve e delizioso quadretto esotico, dai ritmi più caraibici che africani, in cui il violino ricrea i languidi colori di un assolato paradiso immaginario.

“One More Cup Of Coffee” anticipa in modo tenue e discreto le sonorità latine, messicane, che avranno il loro trionfo nella splendida “Romance In Durango”, avventura di due fuggitivi ambientata in uno scenario da film western. Grazie alle evoluzioni del violino e delle chitarre acustiche, pizzicate come mandolini, c’è una grande profusione di colori, abbastanza insolita per Dylan.

“Black Diamond Bay” è uno splendido incubo in versi: il ritmo è tiratissimo, scandito da una secca batteria jazzeggiante; in “Oh, Sister” invece il violino regala toni vellutati e decisamente romantici. Non si trova un solo brano scarso, anche perché “Joey”, unica ballata un po’ noiosa (11 minuti), in compenso ha un testo da incorniciare.

Sono passati ormai 50 anni dall'uscita di questo capolavoro del Dylan maturo, ma ogni volta che parte la chitarra di "Hurricane" inizia un nuovo sogno. (Luca "Grasshopper" Lapini)