BRUCE SPRINGSTEEN "The ghost of Tom Joad"
(1995 )
Chi ha letto il bellissimo romanzo di John Steinbeck da noi tradotto come “Furore”, pietra miliare della letteratura americana, ha perso le tracce del fantasma di Tom Joad negli anni ’30, ai tempi della Grande Depressione. Lo ha perso di vista mentre vagava, non si sa se morto o vivo, intorno ad uno degli squallidi accampamenti di carovane dove i disgraziati d’America di allora, gli “okies” provenienti dall’Oklahoma e da altre terre rese sterili dalle coltivazioni intensive, si accalcavano alla disperata ricerca di un lavoro da schiavi, pur di sopravvivere nella Terra Promessa Californiana. Le teste appena un po’ più calde, come il nostro Tom Joad, alla prima rissa finivano nel mirino della polizia, specie se la causa era la legittima e sacrosanta difesa contro i sorprusi degli sfruttatori. In tal modo perdevano anche la speranza di essere reclutati come raccoglitori di pesche, di cotone o di qualsiasi altra merce, diventando così veri e propri fantasmi viventi. Nel 1995, in pieno Ottimismo Clintoniano, Bruce Springsteen gettò un bel sasso nello stagno di un’America intorpidita dal proprio presunto benessere, cantando che il fantasma di Tom Joad dopo più di sessant’anni non aveva ancora trovato pace, ma si aggirava intorno agli accampamenti odierni, lungo le autostrade, dove “le famiglie dormono nelle loro macchine nel Sudovest… niente casa, niente lavoro, niente pace, niente riposo”. Per meglio lanciare questo monito tornò alle radici musicali della sua terra, riprendendo lo scarno ed essenziale stile country che molti anni prima aveva dato come frutto l’ottimo “Nebraska”, ma aggiungendo qua e là cupe tonalità di basso o spettrali effetti di tastiere, che nei brani più riusciti danno il senso concreto della tragedia descritta, quella dell’America che non esiste, che non risulta nelle statistiche. Ciò che è venuto fuori non è uno dei capolavori del Boss, ma merita attenzione e rispetto se non altro per il coraggio di trattare argomenti impopolari e per l’ostinata contrapposizione alle mode dell’epoca, che poi sono le stesse di ora. Le ballate che catturano anche l’orecchio non sono molte e si concentrano più che altro all’inizio: “The Ghost Of Tom Joad” è da pelle d’oca a prescindere dal testo, “Youngstown” è fatta di potenza e fuoco come la fonderia “Jenny”, ormai chiusa, che è la vera protagonista, “Straight Time” e “Highway 29” hanno toni più pacati che contrastano con le crude vicende dei disperati protagonisti, uno appena uscito di prigione e costretto a rigare dritto, l’altro in fuga verso il Messico dopo una rapina. Il confine, una linea maledetta e sfuggente che impedisce la libertà o la felicità agognata, è un tema ricorrente. Lo varca la bella messicana Louisa, con la compiacenza del poliziotto di frontiera di “The Line”, che ne è innamorato. Immagina di varcarlo, in senso inverso, il povero sognatore che nella splendida “Across The Line” intravede la sua felicità al di là, nelle acque fangose del Rio Bravo. Se la musica a tratti tende ad appiattirsi su un country un po’ standard, in compenso le storie sono sempre coinvolgenti, i personaggi sono tutti dei tragici Tom Joad, dai contorni tremendamente reali. In “The Ghost Of Tom Joad” Springsteen riserva le parole più significative proprio a lui, a Tom: “Mamma, dovunque c'è un poliziotto che picchia un ragazzo, dovunque c'è un neonato affamato che piange, dove c'è una lotta contro il sangue e l'odio nell'aria, cercami mamma, io sarò lì. Dovunque c'è qualcuno che combatte per un posto in cui stare o per un lavoro decente o per una mano d'aiuto, dovunque qualcuno lotta per ottenere la libertà, guarda nei loro occhi, mamma, e vedrai me”. Tom Joad il 2 novembre 2004 non ha votato né l’ottuso militarismo di Bush, né il progressismo da salotto di Kerry, ma ha continuato a vagare per le strade americane, e continuerà ancora, finché qualcuno non si accorgerà di lui. (Luca "Grasshopper" Lapini)