AQUEFRIGIDE "Dinosauri"
(2016 )
C’è più di un punto di osservazione per ogni cosa, il cubismo insegna e “Rashomon” pure. Non c’è torto o ragione, cantava Agnelli – mica un guitto – e lo cantava bene; non c’è giusto o sbagliato, bello o brutto in “Dinosauri”, album che segna la rentrée sulle scene degli Aquefrigide da Roma e dintorni, probabilmente la sola nostrana incarnazione di quel Transgender Dysphoria Blues che ha consacrato ad uno status iconico gli Against Me! di Laura Jane Grace. Se da un lato rischiano la caduta ricorrendo ad un linguaggio tanto truce e volgare (“Bowie”, “Malumore”) quanto assurdamente funzionale al disegno complessivo, dall’altro sanno iniettare una barbarica ferocia in queste undici tracce corrotte e degradate che pescano a piene mani da un microcosmo dissoluto, devastato, psicotico e profondamente marcescente. Come creatura che si pasce di scarti altrui sul buio fondale marino, Aquefrigide – Simona La Muta & sodali - si riaffacciano a sette anni dall’ultima apparizione su disco (“La Razza”, 2009) con un lavoro che rovista nel torbido fra bordate acide (“Mai”) ed assalti a testa bassa (“Demoni”); con impietosa, sordida violenza belluina post-tutto, i quattro devastano qualsiasi accenno di fruibilità grazie ad una virulenza ben poco raffinata che attacca con furia cieca sulle ali di un hardcore remiscelato, tra bordate di feedback, scariche nevrotiche, grida parossistiche (“Veleno” è ad un passo dai Linea77), inserti di elettronica deteriorata che ricordano i Drown (o i Toot, per restare in zona) ed inattese oasi di effimera requie (“Cellula”, “Sale”) suggellate dal reggae malefico di “Vipere” in chiusura. Labile il confine fra turpitudine ed invettiva erga omnes, sboccato come si conviene il linguaggio adottato, palese la negazione del facile e del dilettevole. Impossibili da addomesticare: prendere o lasciare. (Manuel Maverna)