recensioni dischi
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BABA SISSOKO & NICODEMO FEAT. LILIES ON MARS  "Djelibit"
   (2016 )

Il nuovo progetto di Baba Sissoko è una straordinaria dichiarazione di poetica e di libertà compositiva che unisce al celebre polistrumentista maliano l’apporto del produttore Nicodemo – da anni impegnato in una ricerca musicale e sonora impegnativa e coraggiosa – e quello del duo femminile italiano Lilies on Mars, che incrociano tematiche della techno londinese con lo shoegaze di inizio ‘90s, e si integrano perfettamente con le sperimentazioni di Sissoko. L’esplosività che ne risulta emana una grande freschezza e mostra una ispirazione generale sopra le righe.

L’etnicità incontra l’elettronica, i ritmi jazz si incrociano con le tendenze rock dei ‘90s, il global si fonde con il tribale senza soluzione di continuità. Un dipinto che potrebbe sembrare caotico – e in effetti lo è, perche sa mescolare con grande attenzione generi completamente diversi tra loro – si risolve in una ambiziosa ricerca musicale che si potrebbe definire totale; abbraccia idee e schizzi sino a renderli materia tangibile e fisicamente densa, toccabile con mano, come si può sentire già dal brano d’apertura, la allucinata “Djallo Djallo”, che in una densa nube generale di shoegaze innesta il tribale – nel procedere schizzato di una drum machine che sembra avvelenata – all’acidità dell’elettronica di Chicago e dintorni, in una climax spaventosa che si conclude con una ripetizione vocale disarmante (un “never” ribadito più volte) e un silenzio inquietante. Il sottofondo global che unisce i brani dell’opera esce allo scoperto nella meravigliosa “Diki Seme”, che inizia nel segno dei colori sbiaditi tipici dei Suicide e procede con richiami a Fela Kuti e alla world music africana dolce e ballabile. Eppure le sperimentazioni di Nicodemo – così evidenti nel ritmo e nell’arrangiamento – rendono la canzone, nel suo complesso, acida e sporca; la batteria allarga il campo uditivo e visivo del pezzo, che in questo sferzare continuo di suoni mette a contatto un grido maschile con una soffice carezza femminile che caratterizza il finale.

Le Lilies on Mars sono preziose, oltre che per l’apporto vocale, soprattutto per quel sano e spontaneo bisogno di melodia, di simmetria, di atmosfera pop. La grezza “Ebi” è resa grande proprio dal contrasto – che nel suo essere territorio di scontro diventa anche campo di alleanza e di punto di incontro per un nuovo sound – tra la voce potente e bellissima di Sissoko e la voce spettrale e femminile che riempie gli spazi strumentali. In questo modo Sissoko non rinuncia alle sue ricerche nel panorama della global music e le Liles on Mars non smettono di fare ciò che sanno fare benissimo: vale a dire tessere stupende trame pop su beat coinvolgenti. Altro elemento di forza dell’intero disco sono le percussioni di Sissoko, ormai celebri e acclamate, che si coniugano perfettamente con l’apparato elettronico di Nicodemo, i cui sintetizzatori strizzano l’occhio più volte ai Daft Punk: siano di esempio “Tarà Tarà”, che potrebbe tranquillamente popolare le sale di qualche discoteca underground, e “Wori Ko”, un viaggio psichedelico nel rock nigeriano che sembra quasi un tributo al gigantesco William Onyeabor senza che il rock sia realmente presente, vivo, pulsante.

La strumentazione unica di cui dispone questo disco – per citarne alcuni: ngoni, tamani, darbuga, percussioni di ogni tipologia – entra a contatto con le chitarre elettriche, i sintetizzatori, le tastiere, le voci femminili. Ciò che sembra apparantemente un tuffo nel caos e nell’indecisione si trasforma invece in una meravigliosa esperienza musicale che ha dietro uno studio, una lavorazione, una preparazione e una ispirazione clamorosamente enormi. I fili che tengono insieme il delirio elettronico di “Dje Gnua Gna” proviene da un futuro lontanissimo e interseca tutti gli elementi dell’opera – percussioni, tastiere, voci, synth – in modo così indissolubile da rendere chiaro quanto lavoro ci sia dietro. Non solo lavoro, ovviamente; anche tanta ispirazione. Eppure, senza un solido lavoro preparatorio – attraverso cui l’artista si fa artigiano e adempie in senso pratico e chirurgico alla poiesis greca, ossia un atto creativo che ha nelle sue radici un forte sforzo fisico e concreto – non potremmo assistere a un’opera così coerente. Valga su tutto la chiusura: “I Yele I Yele” sembra presentarci prima singolarmente gli elementi che compongono questa collaborazione per poi gettarli insieme nella mischia e lasciarli influenzare vicendevolmente, dimostrandoci quanta precisione ci sia in tutto questo. Dove il tribale tocca il 4/4, dove la world music più anarchica sfiora la rigidità della classica forma-canzone pop fatta di strofa e ritornello: proprio lì questa collaborazione funziona; proprio lì ci comunica qualcosa di come nasca l’arte e come vada accompagnata nel suo percorso di maturazione. (Samuele Conficoni)