recensioni dischi
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INTO MY PLASTIC BONES  "A symbolic tennis pot"
   (2016 )

Chiunque possieda un minimo di familiarità e dimestichezza con il catalogo delle gloriose Touch & Go e Dischord, etichette che segnarono il nascere, il fiorire ed il successivo proliferare della scena indie statunitense (post-hardcore? Post-rock?) per buona parte degli anni novanta grazie alla profferta di asperità elettriche da parte di band assai poco allineate (dai Jesus Lizard ai Don Caballero passando per Steve Albini, solo per citarne alcuni), non potrà non trovare a suo modo attraente “A symbolic tennis pot”, quinto lavoro in dieci anni di sotterranea carriera per il trio torinese Into My Plastic Bones. Collaudati e navigati quanto basta per interpretare il canone, i tre si muovono con la sfrontata sicurezza dei veterani fra scordature deraglianti, tempi math (“Supermarket macarena”), andamenti singhiozzanti, basso caracollante ed un chitarrismo che sfrutta a sfondo ogni possibile stilema mutuato dai padri fondatori, rimasticandolo e risputandolo con la frontale determinazione che al genere si conviene. Se l’eco più roboante – ed invadente – è quella fugaziana, particolarmente evidente laddove il canto ed i percorsi infidi della chitarra più si approssimano al latrare sgangherato di Ian MacKaye (l’assalto truce di “Overstepping bound” non sfigurerebbe su “Steady diet of nothing”, così come i riff insistiti e sghembi di “Cheap canvas”), gli insistiti intrecci dissonanti – Shellac docunt - contribuiscono ad edificare un climax di tensione spasmodica che lievita incessantemente senza concedere requie. Accade nella coda monocorde di “Sawn”, nel rallentamento ossessivo della strumentale “This endless conversation”, sventrata da un basso suonato con impeto percussivo mentre una chitarra ingannevole suggerisce una linea vagamente melodica inghiottita da arpeggi indigesti, nel trittico conclusivo che va alla deriva in un claustrofobico ingorgo math, tra accordature aperte, ritmi sbilenchi e retrogusto metallico. Curato nel mastering addirittura da Bob Weston a Chicago e pubblicato in Italia da Scatti Vorticosi/Vollmer Industries, “A symbolic tennis pot” è album di soffocante intensità, la cui (gradita) derivatività è sontuosamente compensata dalla foga belluina dispensata da Paolo, Leo e Poli, oscuri paladini di un suono incompromissorio e refrattario a flirtare con contaminazioni di ventura, nel segno sia di un approccio brutalmente diretto ed urticante, sia di una ricerca sonora pressoché sconosciuta ai nostri lidi. (Manuel Maverna)