recensioni dischi
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CAMURRIA  "RoccAgreste"
   (2016 )

Chi fa musica e cova il sogno che, un giorno, questa possa diventare il proprio lavoro futuro, è destinato (spesso) ad incassare delusioni e frustrazioni. Invece, chi da subito imposta l’ambizione sul puro passional-diletto e lascia al destino le sorti di “quel che succede, succede…”, delizierà di vita artistica sempre col sorriso e mai in maniera rancorosa. E’ l’intenzione che si respira con i Camurria, sestetto siciliano che realizza con goliardia e divertimento un combo decisamente inusuale. Già un primato ce l’hanno: vengono da Enna, la provincia più alta d’Italia, e inoltre, vivendo nell’unica a non avere sbocchi a mare, pensate a come questi ragazzi si sono immersi interamente nel contesto montano, catturando climi e atmosfere, carpendo profumi e sensazioni esclusive, senza distrazioni di sabbia intorno. Da ben 17 anni prendono (e si prendono) in giro col giusto acume, con rispettosa ironia, ed inoltre sono talmente fieri di aver coniato la definizione di “Rock Agreste” da battezzare cosi il nuovo album (con la variante della doppia “c”). Potevano forse avere una struttura “seria” e tradizionale le 16 tracce incluse? Neanche per sogno! Ci troverete intermezzi di strumentali, chiacchiere e risate, tra amabili e gustose tracce, ed in più la particolarità di aprire e chiudere il tutto come una zip (inclusa sorpresa nascosta di baldoria finale). “RoccAgreste” è un caleidoscopio di colori e di musica agricola, apprezzabilmente anacronistico, con un frullato di generi e stili che lo rendono invidiabile. C’è il samba alla Matt Bianco in “Traficu a Villa”, dove si notano commenti di fiati, inseriti con giusta pertinenza, che fanno salire il brano sul podio più alto del disco. Oppure lo swing di “Catunia”, ironico e dissacrante, che sembra estratto dal cilindro di Sergio Caputo dei tempi d’oro, con clarino e sax che rendono frizzante il suo contesto nostalgico, e pure con un rumore di disco usurato e scricchiolante, piazzato in tre fasi del pezzo. I Camurria non dimenticano le loro origini, dando talvolta palesemente risalto al loro dialetto per mantenerlo giustamente vivo. La vedo sinceramente dura che usciate insoddisfatti da questo album, cosi poliedrico e farcito con gusto, anche per orecchie più esigenti. Allora, facciamo suonare infinite volte “RoccAgreste”, perché parla di vita, di fantasia e odora di terra: quella buona, quella incontaminata, quella fertile, che fa crescere non poco la qualità della musica. Complimenti! Baciamo le mani… (Max Casali)