recensioni dischi
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ERIK FRIEDLANDER  "Rings"
   (2016 )

Opera a tratti impervia, di matrice colta ed elitaria sebbene venata anche di inserti maggiormente popolari e fruibili, “Rings” è il nuovo capitolo nella nutrita discografia dell’affermato violoncellista newyorchese Erik Friedlander, artista cinquantaseienne ben noto nel circuito che unisce jazz ed avanguardia. Sia compositore che collaboratore al fianco di nomi di spicco dell’intellighenzia statunitense (da John Zorn a Laurie Anderson), Erik si avvale del supporto della sua band – i Black Phebe – confermandosi figura tanto distante dal mainstream quanto elegante alfiere di una concezione impegnata e dotta di fare musica. Affiancato dalla pianista e fisarmonicista Shoko Nagai e dal percussionista Satoshi Takeishi, Friedlander offre oltre un’ora di complesso ma affascinante intrattenimento, aprendo col tango di “The seducer”, risolto in un tema arabeggiante, proseguendo con la melliflua aria pianistica à la Lyle Mays di “Black Phebe”, sfiorando la classica contemporanea sia in “A single eye” che nella successiva ”Fracture” (Chopin e Debussy fianco a fianco), infilandosi addirittura nella tziganata sghemba di “Risky business”, condotta a passo sostenuto fino all’inatteso epilogo tuareg. Fatta eccezione per la world-music di “Small things” e per la chiusa ariosa di “Silk”, gradevoli digressioni in area Pat Metheny, la seconda parte dell’album giostra attorno agli aspetti più sperimentali e rarefatti dell’arte di Erik, indugiando sui passaggi dissonanti di “Tremors” e sull’agonizzante, esangue desolazione di “Solve me”, cullando la magia del pianoforte della Nagai nella sospesa “Waterwheel” e cedendo infine all’amato jazz nell’intricato arzigogolo di “Flycatcher”. Disco ovattato e gentile, “Rings” è un viaggio fra i molti colori di un artista da scoprire con rispettosa devozione, finestra socchiusa su una musica così lontana, così vicina. (Manuel Maverna)