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MICHELE GAZICH  "La via del sale"
   (2016 )

Ricordate a scuola quel gesto ossequioso di scattare tutti in piedi all’entrata dell’insegnante? Se, all’epoca, quel rituale di riverenza era d’obbligo, stavolta non lo è perché si rende onore al maestro Michele Gazich che, entrando in aula con il suo nuovo lavoro “La via del sale”, ci dà una bella estensione di cultura al solo sentirlo. Perché questo progetto ci fa recuperare e conoscere tanti sapori e strumenti andati: da quelli popolari a quelli classici e perfino quelli “apolidi”, ossia strumenti la cui origine non è mai stata stabilita ed hanno sempre viaggiato senza certificato di nascita: sto parlando del piffero dell’Appennino o della zampogna del Sannio. Mai sentiti nominare? Ecco l’occasione per conoscerli! L’operazione di Michele non vuole però abbracciare la nostalgia ma semplicemente operare nel recupero di certe emozioni antiche come suoni dimenticati, voci narranti, strade importanti che la civiltà moderna ha sepolto definitivamente. Inutile negare che sia un tentativo ambizioso e quanto mai coraggioso. Ma lui ci riesce con affascinante naturalezza per la sua massiccia esperienza e competenza a vario titolo, in campo musical-didattico, grazie a infinite collaborazioni a tutto tondo: da Bubola, Priviero a Michelle Shocked e The Chieftains, tra gli altri. Senza contare lo zampino su oltre 50 lavori di elevata caratura ed una manciata di altri lavori a sua firma con la band La Nave dei Folli. Detto questo, l’analisi di “La via del sale” è, a dir poco, entusiasmante e ipnotica quanto basta, e colloca Gazich nelle alte sfere del cantautorato intellettuale ma dall’abbordabile fruibilità per la semplice suggestione di musica e testi, senza tanti giri di parole. “Dia de shabat” e “Viaggio al Centro della notte” ne danno un’idea illuminante, con il suo violino fuso con pianoforte e chitarra. Mentre l’oboe si fa avanti in “Barcellona, Sicilia” e “La biblioteca sommersa”, pezzo sussurrato alla Conte accompagnato nel finale dalla voce tedesca di Frank Deja. Ci sono anche brani divertenti come “Un tempo la fuga era un’arte”, in cui si fonde l’ironia, nella voce e nelle intenzioni, di Gaber e Capossela. La palma d’oro va indubbiamente a “Una lettera dalla barricata”, con una intro emozionante in stile “La canzone popolare” di Fossatiana memoria, e cornamusa a iosa per accentuare la sua particolare amenità. Non pago di averci estasiato e incantato, Gazich si toglie pure lo sfizietto di sorprenderci ancora con la strumentale “Fontanigorda” per chiudere la lista. E chi non gli perdonerà “La vita non vive” (in quanto, forse, poco accattivante) commetterà peccato veniale perché qui conta la globalità dell’atmosfera magica e il tuffo di qualità che ci ha condotto dentro un’ostrica musicale di rara bellezza, tra coralli di note e ritrovati tesori. (Max Casali)