POP JAMES "Super power, super quiet"
(2016 )
I Pop James – il cui nome è un tributo simpatico e appassionato al grande Bob James – effettuano un tuffo originale e coraggioso in un universo poco esplorato dalle band nostrane: la world music come sperimentazione, il soul e il jazz come sfogo dei sensi e il rock non più come genere tipico dell’occidente, ma come salto necessario per ricondurre noi stessi alla cultura a cui lo abbiamo strappato tanto tempo fa.
“Super Power, Super Quiet” è un disco pieno di speranza, di gioia, di divertimento. Emana con una semplicità disarmante ed una onestà rara quella sensazione di evento speciale tipica di ogni manifestazione musicale africana o sudamericana, in cui tutta la città – o la comunità, o il villaggio – è chiamata a rispondere ed a recarsi in piazza per suonare, ballare, cantare. “Afromoon”, il singolo portante dell’album, un brano a tema “spaziale”, ne è la copertina più vera: ritmi tribali si affiancano a chitarre dolci e pop; il cantato soul ci riporta a Smokey Robinson, l’atmosfera jazz agli Yellowjackets. Il suo procedere ossessivo e ipnotico si stampa nel cervello dell’ascoltatore, diventando il biglietto da visita più adatto e più riuscito dell’intero disco.
Le influenze chiamate in causa sono tantissime, ben rintracciabili e variegate. Se da un lato queste rischiano di intaccare un po’ l’originalità del progetto, dall’altro lo fanno brillare per quanto sono mescolate sapientemente e gestite con una maturità impressionante. Le tastiere di “Drops” ricordano tantissimo l’esperimento “The Dreamers” di John Zorn, il cui culmine si colloca intorno al biennio 2012-2014, mentre la voce assume contorni ‘80s quasi da Tears for Fears. “Drops” è forse la più sconvolgente dichiarazione di intenti della band, che attraverso questo mix sbalorditivo dimostra di saper spaziare nei generi e nei decenni senza che i risultati appaiano mai fuori luogo o imprecisi.
Le parentesi prevalentemente elettroniche sono “Rais Montura” e “Acquario”. In queste, la componente elettronica e quella percussiva stravolgono l’iniziale – e apparente – tranquillità melodica, facendo insinuare i brani nell’hip-hop/funky dei Fugees e nell’R&B più sentimentale di Maxwell; la seconda, in particolare, risente tantissimo degli approcci vocali di Erykah Badu e di tutto il movimento hip-hop/neo-soul dei ‘90s, ed è forse la punta di diamante dell’album. Il neo-soul è anche il marchio di fabbrica di “The One”, splendida nella sua scorrevolezza, nel quale il gruppo amplia ulteriormente le sue vedute grazie ad un finale dai contorni quasi post-rock.
Un quartetto così versatile non è cosa di tutti i giorni in Italia. La loro alchimia splende in “Underwater Ride”, la canzone nella quale – più che in tutte le altre – le forze centrifughe e centripete del gruppo collassano e si ritagliano perfettamente il proprio spazio, ciascuna a suo modo protagonista di una fuga o di un assolo, di un contrappunto o di un silenzio carico di significato. È uno dei primi brani del gruppo, e anche il più vicino alla musica dance e fusion. La voce è importante, ma quello che colpisce del disco è che un ascoltatore inizia a seguirla, prova a capirne le sfumature e le parole che canta, ma poi la perde volutamente – la lascia andare a sé stessa con un leggero senso di malinconia – perché anche lei è diventata uno strumento, un cumulo di vibrazioni e suoni graffianti che vanno a intrecciarsi con la pioggia di sintetizzatori e tastiere, di basso e di batterie, che scendono in campo dal primo istante di ogni brano.
Non lasciatevi ingannare, questa non è musica facile: è piena di ferite, morsi, suoni di altre culture. Dall’Africa al Sud America passando per le lezioni che il Mondo Occidentale ha impartito nel corso dei secoli: questo disco è un testamento per il futuro più che per il passato. Non emana solo nostalgia, ma anche grazia; la consapevolezza di caricarsi di tanti contrasti per ributtare fuori qualche certezza in più. Ma la ricerca di certezze non implica il trovare risposte: ecco così che alcuni richiami alle sonorità dei Police in “The One” o “Drops” cozzano volutamente con il rap elettronico di “Monica”, che ha un testo in italiano e che ricorda certe avventure dei Neon Neon e le loro collaborazioni con Sabrina Salerno e Asia Argento.
Il tema “spaziale” che caratterizzava l’apertura con “Afromoon” ritorna prepotentemente in “Da Space”, il brano conclusivo: si forma così una sorta di concept che collega ad anello inizio e finale del disco. Il brano, sorto dalle ceneri di un progetto videoludico per bambini ispirato a “Viaggio Sulla Luna” di Meliès, funge da input per aumentare di intensità i beat e le pieghe dei sintetizzatori (dalle reminiscenze Ultravox); ci si imbarca su una navicella spaziale per terminare ciò che “Afromoon” aveva cominciato.
Quello che è chiaro è che con “Super Power, Super Quiet” siamo di fronte a un progetto del tutto inconsueto; e lo è ancora di più se calato nella scena musicale italiana di questo periodo. Ciò che a tratti il disco perde in originalità lo guadagna in altri campi: nella sintesi, nel divertimento, nel fondere tra loro sonorità opposte e nel riuscire – incredibilmente – a conciliarle. Tutto questo funziona, e non viene accantonata neanche per un solo istante la potenza melodica di ciascun brano, mai trascurata, mai messa da parte per altri intenti. E questo è un ulteriore punto di forza del disco: sa farsi canticchiare senza rinunciare alla sperimentazione.
(Samuele Conficoni)