SIR RICK BOWMAN "A quiet life"
(2016 )
E’ piacevole imbattersi talvolta, quasi per caso, in dischi e band che con una inattesa padronanza da veterani sappiano regalare un’abbondante mezzora di lieve, impalpabile beatitudine. E no: non parliamo di Radiohead o Afterhours, bensì dei Sir Rick Bowman, quintetto toscano che promana dal sommesso genio del suo fondatore Riccardo Caliandro, penna brillante che varò il progetto nel 2008 traghettandolo fino ad oggi attraverso una consistente attività live ed un interessante album di debutto (“Shades of the queue”, 2013). Sebbene la band indichi tra le proprie influenze il pop britannico, “A quiet life” è lavoro ben più complesso e non così facilmente riconducibile a stilemi consolidati: si tratta, anzi, di un disco che a piccolissimi passi sovverte i canoni di genere pervenendo ad una singolare sintesi che cita sì in ordine sparso schegge di modelli ben noti, ma al contempo se ne distacca mostrando di non pagare dazio a sudditanza alcuna. Già l’opener “Otis” gioca a carte coperte col suo taglio psichedelico fatto di ampiezze spaziali e sonorità espanse ben assecondate dall’eco sulla voce, prima di cedere il posto ad una “Tip of the tongue” dall’attacco quasi stoner risolto in una sorta di boogie mascherato ed alla caracollante intro western di una “His man” ingigantita da un maestoso chorus fra Kinks e Libertines. Ogni spunto è elaborato e sviluppato in direzioni mai immediatamente prevedibili, foriere di brani che racchiudono idee di disparata provenienza e caleidoscopica intensità: pregevole la ballata à la David Gray della title-track, con una delicata linea di piano a contrappuntarne il melodioso andamento da torch-song, intrigante la frenetica ritmica spezzata che guida “1937” all’ennesimo sontuoso ritornello sublimato in un saturo ingorgo armonico, ammaliante la gentile ballad melanconica di una “Hurry & fall” che si inerpica su un’aria à la Belle And Sebastian digradando in una coda sospesa per sola chitarra. Fra preziosismi garbati e sottili intuizioni di raffinata fattura, l’album affascina con divagazioni eleganti senza mai travalicare il limite di una misurata godibilità: in “Youth” la band condensa accenti limitrofi all’emo-core, accordi aperti lanciati a velocità ipercinetica, esitazioni disseminate ad arte e sfuggente assolo conclusivo in un maelstrom che lambisce gli Arctic Monkeys, prima di collassare nella spettrale ballata dimessa di “Seawolf” (Sam Beam che canta Nick Drake) e di calare il sipario sulla labirintica, complessa ed articolata “Black Horizon”, scissa fra una prima parte struggente ed una seconda metà quasi ambient che si spegne lieve tra echi e riverberi, stasi trasognata e cori, suggestioni post-rock e chiusa pianistica, un po’ Mark Hollis, un po’ Bark Psychosis. E’ il suggello ad un album dalla costruzione più complicata di quanto alcune sue parentesi sembrino suggerire, disco realizzato e prodotto con una cura del dettaglio ed una intelligenza compositiva meritevoli di encomio e di attenzione, lavoro di non facile assimilazione che mette in luce una volta di più le doti di una band solidamente futuribile. (Manuel Maverna)