recensioni dischi
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AFTERHOURS  "Folfiri o folfox"
   (2016 )

Al gener nostro il fato non donò che il morire, Manuel Agnelli ora sembra saperlo bene. Questo disco non è bello, non nel senso tradizionale del termine. Non può esserlo e non vuole esserlo. Questo disco nasce ostico e ostile perché non poteva essere altrimenti: tratta ovunque di malattia e di morte, in ogni sillaba, in ogni verso straziato, in ogni ubriacante divagazione, in ogni curva cieca, perfino in ogni traccia che non parla né di malattia né di morte. Mai esistiti spiragli di luce nei quasi sei lustri di carriera degli Afterhours (Manuel cita “Riprendere Berlino” come una delle poche eccezioni), probabilmente la più importante band alternativa mai apparsa nel nostro paese di santi, navigatori e stornellatori. Ferocia e disillusione, amarezza ed iconoclastia, sorda violenza compressa o deflagrante dispensata a piene mani in una espressività sempre feroce, abrasiva, cinica, scorretta. C’erano una volta i travestimenti di scena, i vestitini da bambine o le mute da sub, con tanto di coltello al polpaccio. Ma le maschere sono cadute insieme alla voglia di giocare ai piromani, Iriondo è partito e ritornato, Prette ha lasciato la barca. La cruda efferatezza di “Germi” ha ceduto il passo di volta in volta al teatrino di abbrutimento di “Hai paura del buio?”, al vuoto pneumatico di “Non è per sempre”, alla desolazione di “Quello che non c’è”. Manuel Agnelli è invecchiato, ha iniziato a fare i conti davvero col peggio della vita, forse è sceso a patti con la sua. Ha guardato di lato in “Ballate per piccole iene”, ha esploso un colpo assordante udito da pochi ne “I milanesi ammazzano il sabato”, compendio surrealista di rapporti umani deteriorati, fucina di quella sperimentazione sonora che raggiunge oggi il suo acme, si è infilato in un cunicolo attendista in “Padania” cavalcando un’onda balorda (qui riecheggiata nel turbine di dissonanze del primo singolo “Il mio popolo si fa”). Poi la nera signora è arrivata a prendersi suo padre, aprendo il taccuino su qualche domanda inespressa, su mille riflessioni inevase, forse anche sul futuro di una band minata dalle nevrosi e da inevitabili lacerazioni interne. E dalla morte è nato “Folfiri o folfox”, emblematico e programmatico fin dal titolo, i nomi di due chemioterapici sbattuti in copertina insieme ad un’orchidea, naturalmente su sfondo nero. Fantasmi di sentimenti e situazioni, ridotti a comparse e sminuiti a comprimari, aleggiano spettrali dietro la falce: l’amore è sempre sbagliato, imperfetto nella migliore delle ipotesi, il degrado sociale è inevitabile nella sua abiezione, briciola avvelenata concessa alla vita in attesa dell’epilogo, che si prende tutta la scena. In diciotto tracce agonizzanti che disintegrano strutture e ridisegnano melodie contorte si compie la narrazione capillare dell’estremo sacrificio. Un calvario di sofferenza nel quale ogni pavido barlume di speranza e redenzione – fatto salvo il testamento di “Se io fossi il giudice”, aria pulita che canta di cose semplici e banali su un liberatorio squarcio di armonia – finisce ricacciato in gola fra rumori, deviazioni, fratture continue alternate a ballate solo in apparenza rassicuranti, in realtà uno dei molti modi di porgere l’altra guancia all’ineluttabile destino comune. Questo disco non è piacevole né godibile, tocca vertici di sgradevolezza che sublimano l’etica agnelliana dell’attrarre respingendo, dalle contorsioni elettriche di “Cetuximab” (un altro chemioterapico) alle saturazioni avant di una “Il trucco non c’è” che Stefano Pilia conduce in un altrove dolente e mistico, giù fino al delirio visionario di una “San Miguel” il cui ermetismo formale lambisce il nonsense tanto quanto i cut-up dei primordi. E’ forse un tentativo di terapia, di autoanalisi, un exorcising ghosts mai ridotto ad esercizio di stile, qualcosa di necessario ed imprescindibile, un punto fermo che cancella le poche certezze rimaste, riducendole ad orpello inservibile. Eppure Dio – un dio – è presente, citato, nominato come ipotesi plausibile, simulacro di una religiosità indefinita lasciata vagare fra le macerie di una vita – una fra le tante – che si spegne in un istante preciso, portandosi via tutto: accade sì nell’ingorgo soffocante di “Ti cambia il sapore” (“ho visto le crepe in me/è la vita che sgocciola via/credo in una via/alla quale io non ho pensato già”) come nell’opprimente cul-de-sac de “Il trucco non c’è”, ma anche Dio deve inchinarsi al corso degli eventi, che sono sequenze di immagini indelebili sublimate nella memoria del dolore. Stanze vuote che richiamano suggestioni hopperiane (“L’odore della giacca di mio padre”, piano e voce dilanianti su una stralunata armonia insolitamente complessa; “Noi non faremo niente”, nuda e spoglia come la camera d’albergo in cui si svolge), palpitante, rigonfio intimismo (“Grande”, meraviglioso incipit spaccacuore con Manuel a sgolarsi narrando dell’infantile sogno/promessa di vincere la morte) e finte concessioni al mainstream (il secondo singolo “Non voglio ritrovare il tuo nome”, la sberla di “Qualche tipo di grandezza” che suona come una “Male di miele” 2.0) conducono ad una seconda parte quasi interamente incentrata sul commiato: sfilano la ballata dimessa di “Oggi” e l’elegia demoniaca della title-track trafitta da inserti da oltretomba, il realismo bastonato di “Né pani né pesci” e lo strumentale straziante di una “Ophryx” che sfiora l’ossianica eleganza di Matt Howden. Musica libera da condizionamenti, compendio di plumbeo verbo ed atmosfere incupite, epifania di un capolinea prossimo venturo del quale finora hai solo sentito raccontare, ma al quale toccherà approdare: da perché tutto questo volere non diventa energia e non ci spazza via a libero di non essere più me il passo è breve, ciò che conta è avere ancora una via d’uscita, ma dietro ogni porta c’è sempre un ignoto. “Folfiri o folfox” è una pietra miliare e tombale, un salmodiare scomposto che ricuce brandelli di una vita estinta, un punto di non ritorno oltre il quale sarà – artisticamente? Umanamente? - quasi impossibile veleggiare: l’ultimo tabù è sviscerato e infranto, chissà dove si va da qui. (Manuel Maverna)