recensioni dischi
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LE MOIRE  "Post flamenco"
   (2016 )

Influenze mediorientali, rock pieno di dissonanze e sfumature acide, fughe chitarristiche che lasciano ad ogni brano un senso di sospensione e disincanto: i Le Moire, con “Post Flamenco”, il loro terzo album che esce a un anno di distanza dal precedente, non deludono le aspettative. I tre ammaliano con le conturbanti ed instabili melodie di ''Un Inspiegabile Fraintendimento'', gli oscuri gorgheggi strumentali di ''Simulazione della Personalità'', le batterie trascinanti e fortemente inquietanti, che conducono a ritornelli tipici dell’indie-rock italiano più o meno recente, soprattutto in ''Balleremo Distratti'', che risente dell’influenza degli Afterhours ma anche di quella dei Litfiba, e in ''Lettere dal Deserto'', la bellissima chiusura del disco, che traccia con riflessi amari l’attesa del ritorno di un’amata che non arriverà mai. La pecularità più grande di questo trio è la sua capacità di non inserirsi in alcun filone preciso: si tratta di una band che sa suonare, sa scrivere canzoni e non ha intenzione di limitare i propri orizzonti. E così troviamo vicini ritmi orientaleggianti e sprazzi di punk grezzo e diretto, aperture melodiche improvvise e dissonanze ruvide e graffianti. Questo più che discreto album è il ritratto di una band di qualità, “in salute”, che si diverte nel comporre e nell’esibirsi, che ha già mestiere nonostante non cerchi in modo troppo ossessivo la strada dell’originalità. Una band che applica, con bravura non indifferente, formule già da molto tempo esistenti, ma che nel corso dei decenni stanno evolvendo senza sosta. Le radici del gruppo vanno rintracciate nella scena indipendente italiana della prima metà degli anni ’90, ma non vanno sottovalutate anche le influenze di Built to Spill, Primal Scream e, per alcuni, sottili tratti, persino dei Silver Jews. I testi toccano temi intriganti come la dissoluzione della propria personalità, la mancanza totale dell’altra persona, di un interlocutore, anche quando lo si ha di fronte; ma affrontanto anche e soprattutto l’assenza, come concetto di vuoto nello spazio esterno e soprattutto interno al narratore. Una ferita che raramente si ricuce; è viva, visibile e ancora dolorosa. Un paio di brani sono tentativi di disinfettarla, curarla, accudirla, senza però dimenticarla. È proprio questa – nel continuo franare su sé stessi e sui propri circuiti difettosi – la grande conquista del disco: prendere coscienza dei vuoti e provare a costruire, lentamente e con estrema semplicità, possibili rimedi. (Samuele Conficoni)