AMUTE "Bending time in waves"
(2016 )
Labile è oggigiorno il confine posto a sfumare gli intenti di un’elettronica che in tempi non così remoti avremmo classificato come ambient/noise e che, allo stato attuale, si salda alle derive del post-rock di seconda generazione. Jerome Deuson, in arte aMute, è un prolifico artista belga da dodici anni portavoce di un modo estremamente personale di interpretare e rileggere i crismi dell’elettronica contemporanea ibridandone gli stilemi tradizionali con forme mutuate dai generi più disparati. Inizialmente depositario di un progetto solista, oggi Jerome si avvale di una band vera e propria per veicolare la sua originale commistione artistica calandola in una dimensione maggiormente adatta ad essere rappresentata live. Accostato talora a Tim Hecker, Jerome se ne discosta in realtà in virtù di un approccio più sincretico e spinto, che rinuncia alla costruzione di pattern atmosferici prediligendo un taglio più brusco, fosco, semplicemente più elettrico, in ciò affrancandosi dai canoni abituali del genere. La sua è musica di estremo dinamismo che oscilla fra potenza immaginifica, suggestioni evocative, espansioni limitrofe alla psichedelia, incursioni nello shoegaze, ma da un punto di osservazione singolare: fra Explosions In The Sky, Flying Saucer Attack, riverberi, drone-music, echi industriali di matrice teutonica, Jerome ricama atmosfere eteree e dilatate punteggiate da rigurgiti electro ed impennate techno, impastando Fennesz e Test Dept, seguendo linee melodiche che evolvono, mutano, deviano senza mai giungere alla circolarità. Vanno in scena in questa ennesima dimostrazione di imprevedibile, arzigogolata padronanza tecnica memorie di Tangerine Dream e Mark Hollis (“Internal eternal”), puntate sperimentali che richiamano le intuizioni dei seminali Bark Psychosis (“Bending time in waves”, impreziosita da un inserto di violoncello), improvvise oasi di requie trasognata (“Pleine charge”), fra rumore bianco stratificato e saliscendi impervi e altalenanti (“The awakening of march”). Sempre in bilico fra le molte anime di una musica smarginata, in “Stay as you are…” Jerome riesce addirittura a nascondere un’aria pop sotto una coltre fragorosamente snervante che ricorda il passo ondivago e farraginoso dei Women, occultando una pura melodia tra aperture orchestrali e occasionali clangori metallici, armonia fruibile screziata da rumori di fondo, piccole anomalie, rimbombi ovattati. Capace di ricamare esili tessiture come di dipingere scenari intrisi di velata malinconia – emblematica una “Solar flames” che lambisce, su un tema à la My Bloody Valentine, una love-song sui generis -, Jerome stipa suoni deflagranti in cunicoli angusti, facendo di “Bending time in waves” un lavoro sovraccarico e strabordante, opera di traboccante intensità che satura qualsiasi spazio, senza per questo sminuire la profonda piacevolezza che l’immersione nelle sue fitte trame sa regalare. (Manuel Maverna)