SOPHIA "As we make our way (unknown harbours)"
(2016 )
Per lasciarsi amare come merita, il nuovo capitolo narrato da Robin Proper-Sheppard sette anni dopo “There are no goodbyes” richiede di scendere a patti con un passato tanto ricco quanto innegabilmente distante anni luce – almeno se riferito alle asperità nineties dei God Machine – dalla declinazione di maturo sadcore che contraddistingue l’odierna incarnazione del suo nume tutelare. Cantore di una composta mestizia condensata in composizioni imperniate su esili strutture ed armonie esangui corroborate dalla morbida rotondità degli arrangiamenti, il crooner originario di San Diego offre in “As we make our way (unknown harbours)” un compendio della propria arte rielaborandola in fogge sì già note, ma senza smarrire l’afflato garbato ed intimista che ne ha segnato gli episodi più recenti. La claustrofobica introspezione dei testi, qui a tratti ridotta sino a rasentare l’essenzialità (ad esempio nell’ariosa espansione di “You say it’s alright”), cede il passo ad atmosfere dilatate che mirano alla saturazione: accade nel synth-pop ridondante di “Resisting” che si allarga progressivamente in una coda sfarzosa à la Coldplay, nel crescendo di “It’s easy to be lonely”, anomala torch-song à la Arcade Fire priva di un fulcro, o ancora nella palpitante esitazione di una “Blame” che potrebbe provenire dal repertorio di Chris Mansfield. A fungere da contraltare agli episodi maggiormente sovraccarichi, tra i quali vanno inclusi il mid-tempo in minore di una pregevole “California” e la bordata (Iggy meets Reznor?) di “St. Tropez/The hustle”, giungono arie più dimesse, in linea con i Sophia degli esordi (quelli di “Fixed water” in particolare), dall’incedere indolente e catatonico di “The drifter”, ballata bislacca à la Julian Cope, alla pigrizia notturna di “Don’t ask” fino al desolato, agonizzante rallentamento di “Baby hold on”, slow da Sam Beam nobilitato da una dolente melodiosità. Lavoro introverso e multiforme che nulla inventa, ma che conserva inalterata l’incupita riflessività di sempre, “As we make our way (unknown harbours)” restituisce una volta ancora l’immagine di un autore ingabbiato nell’hortus conclusus del suo personale labirinto, figura sfuggente simile ad un ologramma, animo solitario di indomita fierezza che rifugge da catalogazioni di maniera, arroccato nella propria altera caparbietà. (Manuel Maverna)