recensioni dischi
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HEATHENS  "Alpha"
   (2016 )

Quartetto di origini venete formatosi nel 2011 per iniziativa dei fratelli Mattia e Lorenzo Dal Pan, gli Heathens pubblicano su etichetta Irma Records il secondo album a quasi quattro anni dall’esordio autoprodotto di “In silenzio”, lavoro che tracciava le coordinate di un approccio decisamente intrigante all’elettronica, interpretata seconda una concezione morbida ed elegante. Segnato sia dall’illustre produzione di Tommaso Mantelli che da una sorprendente maturità evolutiva, “Alpha” offre atmosfere languide, mai spigolose nemmeno negli episodi più concitati o sperimentali (“Bertrand Russell”, fra James Holden e Daft Punk), una percepibile eco dei Depeche Mode meno canzonettari (“It doesn’t matter”) e dei Massive Attack meno incupiti (“Empty house”, con la voce profonda ed evocativa di George Koulermos), un flusso carezzevole ed incessante di sonorità garbate, mai spinte oltre limiti accettabili. Innervato da un groove confortevole che lavora – e bene – sulla costruzione di un sound ampio e dilatato, puntellato da una ritmica ben delineata e sostenuto dalla pregnanza del canto, “Alpha” è pervaso da un sottile equilbrio che lo domina e lo indirizza, conservando inalterato l’interesse pur in assenza di pezzi-killer: è musica che procede ovattata dipingendo scenari malinconici, rinunciando a bruschi strappi, privilegiando altresì la massima resa sonora ottenibile dall’incastro fra armonia e dinamiche. Il gioco riesce sontuosamente nell’IDM in crescendo di “Parallel lines” – quasi gli XX – come nell’incalzante beat ipnotico à la Editors di “To the end of the night”, raggiungendo vette di eccellenza nella robotica “From my sofa” – i Soft Cell su un’aria kraftwerkiana – o nello struggente intreccio di una “Our happiness” che gravita a breve distanza dai primi New Order. Sono sì riferimenti in ordine sparso, ma appigli non indispensabili per gli Heathens, che riescono a destreggiarsi con autonomia fra le molte istanze portate in dote: toccante l’atmosfera incombente à la Portishead di “The dust”, nobilitata dalla voce di Anna Carazzai e da una scrittura che insiste su passaggi disarmonici a creare un’aura straniante, mirabili sia l’esitante rallentamento trattenuto di “In limbo” sia il bisbiglio sommesso di una “Apocryphal masters” che lambisce l’introversione di Del Naja e soci in una personale rilettura aggiornata del trip-hop che fu. La chiusa, affidata alla riedizione trasognata di “Flying over the ocean”, traccia presente sull’album di esordio, richiama Matthew Barnes e suggestioni ambient, stendendo l’ultimo velo di composta eleganza su un album che richiede sì svariati ascolti per lasciarsi apprezzare, ma che riesce gradualmente ad insinuarsi sottopelle con grazia e misura, lasciando presagire ulteriori margini di sviluppo per una band colta e gentile, futuristica e futuribile. (Manuel Maverna)