recensioni dischi
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LES COWBOYS FRINGANTS  "Octobre"
   (2015 )

Difficile che nell’opinione di esegeti, critici e personaggi austeri, al folk più barricadero, militante e chiassoso venga riconosciuto il medesimo status di aurea stima attribuito ad altre forme di espressione in musica. Figlio sì di mr. Tambourine Man, ma sottogenere talora degradato a voce di protesta – alla peggio etichettato come divertissement da balera - e derubricato ad arte di seconda scelta in virtù della sua prevedibile linearità, spia di un entusiasmo poco incline alle raffinatezze delle sfere più nobili, il folk bandistico di act comunque notevoli (dai Pogues ai Gogol Bordello, dai Debout Sur Le Zinc ai Modena City Ramblers, dai Waterboys agli Old Crow Medicine Show) rimane musica di popolo e non di re. Peu importe: ogni disco dei canadesi - québécois, prego, come dare degli spagnoli ai catalani - Les Cowboys Fringants è una festa mobile, baraonda di solo apparente spensieratezza dietro cui si cela una vis polemica che, con cieca veemenza, sviscera tematiche a sfondo socio-politico e battaglie ambientaliste mischiando gazzarra e riflessività, antagonismo e ricordi, melanconia e furore, dolcezza e vetriolica irruenza. Guidati dalla voce stentorea di Karl Tremblay, i brani di “Octobre” si muovono lungo le consuete direttrici, contrappuntati dai mille ricami di Marie-Annick Lépine ed imperniati sugli up-tempo in minore del padre-padrone J-F Pauzé, penna semplice e prolifica votata ad una efficace immediatezza. Pungenti e ridondanti, pistole e rose, fra strabordanti eccessi ma paradossalmente mai fuori misura, i quattro vergano con “Octobre” un album frutto di autentica ispirazione che riparte da dove “L’expedition” terminava, adombrando e squalificando il debole intermezzo di “Que du vent”: a suggerire la rinascita è la solidità mai cedevole di tutto il lavoro, l’inesauribile campionario di idee, la vivida spavalderia che non necessita di forzature concedendosi ad un’urgenza provvida come non mai. Eppure c’è molto altro oltre alla sassata di “Bye-bye Lou”, lanciata a rotta di collo come da tradizione, ed agli abituali cori anthemici da agitatori di piazza (la rabbia innodica de “La cave” o l’inno sguaiato di “So so”, che pur nel loro sbracato populismo funzionano a dovere): ci sono tentativi, tutti riusciti, di abbandonare il clichè scendendo a patti col mainstream senza per questo snaturarsi o svendere l’anima ai tempi che corrono. L’ouverture è affidata alla ballata dylaniana dritto-per-dritto della title-track, equilibrata essenzialità che si dà senza strafare, e preludio a brani che figureranno di diritto fra i classici del loro repertorio (i quattro minuti perfetti di “Pizza Galaxie”, la torch-song di “La Dévisse”, la corsa di “La la la”), ma funge da gancio per numeri in cui Pauzé sciorina una verve da sapiente autore di razza: il rigonfio sketch à la Shane MacGowan di “Marine Marchant”, folle impennata dopo un inizio esitante, o la svagata aria western di “Les vers de terre”, o ancora una “Mon grand-père” che rasenta il blues scarno ed oscuro di David Eugene Edwards, sono soltanto alcune delle molte deviazioni dalla rotta segnata, episodi che affascinano senza nulla rinnegare. Basterebbero la desolata cadenza di “Les feuilles mortes”, musica&parole a riecheggiare l’immenso Renaud, o la chiusa agonizzante di “Pub Royal”, ballata amara e sofferente che ad un passo indolente lambisce Neil Young, a rinfocolare la grandeur di una band tanto amata in patria, quanto sconosciuta altrove, ma è la coesione dell’album a farne un piccolo gioiello di rinvigorita classe. Disco che eguaglia e spesso supera il vertice rappresentato da “La Grande-Messe” e “L’Expédition”, cancellando con ammaliante lievità l’interlocutorio “Que du vent”, “Octobre” è lo specchio di una band rigenerata che ha saputo riproporsi con la rinnovata maestria dei grandi artisti, quelli che sanno ritrovarsi e reinventarsi senza guardare indietro. (Manuel Maverna)