JOHN GRANT "Grey tickles, black pressure"
(2015 )
Insolito artista, il cui aspetto pacioso e bonario cela in realtà una tormentata indole ed un’esistenza inevitabilmente segnata dal germe della malattia (è sieropositivo dal 2012), il 47enne John Grant, originario del Michigan, abita una nicchia assai anomala del songwriting contemporaneo, attraversato sia con gli Czars (band nella quale ha militato fino allo split del 2006), sia nel successivo percorso da solista. Crooner in bilico fra la accentuata riproposizione di un modello di interprete retrò e la correzione dell’idioma post-folk secondo una rilettura affatto scontata, John inietta in testi di velenosa perfidia una sfrontata irriverenza rivolta talora su sé stesso, in un bizzarro sincretismo che centrifuga senza filtri le disparate istanze portate in dote. Terzo capitolo della sua discografia individuale, “Grey Tickles, Black Pressure” mostra l’eccellenza di questo singolare autore in brani la cui imprevedibilità diviene cifra stilistica, spiazzante connubio di EDM contemporanea e di pompose ballad datate, un flusso (in)interrotto che sottrae certezze e dispensa gemme che sembrano provenire da epoche diverse, sebbene non inconciliabili. Svia subito John, offrendo sì in apertura la title-track che vaga sorniona su un bel ballabile melodico anni ‘70 - Al Stewart meets David Bowie - discorrendo di esistenzialismo incupito con apparente leggerezza laddove ti aspetteresti una lovesong di maniera, ma uccidendo repentino l’appena creato mood d’antan con un trittico di ubriacante modernità: “Snug Slacks”, in quasi totale assenza di musica, impasta Art Of Noise e Prince prima di cedere il passo alle impennate furenti di una “Guess How I Know” con voce filtrata, inserti rumoristici e passo slack (Eels e Beck a braccetto con Reznor), prima che l’armonia truccata di “You & Him” (con Amanda Palmer dei Dresden Dolls) apra l’album ad una serie di interrogativi sul prosieguo delle danze. Si attendono in scena i Daft Punk, ed invece l’atmosfera precipita nuovamente nelle nebbie melanconiche di una toccante “Down Here” che evoca Roy Orbison, Elvis Costello e i Richmond Fontaine sviluppandosi in percorsi non lineari, con un paio di accordi sbagliati semplicemente perfetti nello squlibrare il compitino; da lì in avanti, John satura tutto e va appositamente fuori scala, sfumando il confine tra kitsch (l’immagine di copertina è già di per sé eloquente), genio e coup de theatre, rubando punti di riferimento o – al contrario – affastellandone in quantità. Ricompare Prince in “Voodoo Doll”, straborda “Global Warming” in una ballatona da Equipe 84 (sic!) che raggiunge un culmine di esagerazione ben assecondato dal passo à la Bowie della successiva “Magma Arrives”, dall’incedere kraftwerkiano (con baritono e synth prog slegato e fuori misura) di “Black Blizzard” e – perché no? – da una “Disappointing” (con prezioso cameo di Tracey Thorn) che fra coretti ameni e dance usata lambisce la miss Ciccone meno mainstream nella più clownesca nonchalance. Ma è in fondo l’animo del troubadour gentile a pennellare una “No More Tangles” che sulle ali di archi e sintetizzatori dilatati oscilla fra echi di Björk e St Vincent, quello stesso spleen crepuscolare che riemerge sotto le molte maschere fin lì indossate e che affida la chiusura ed il proscenio esclusivo alla contorta, cangiante melodiosità di una “Geraldine” carezzevole e spettrale, vellutata ed inquieta, specchio delle brame di un personaggio sopra le righe e avulso dagli schemi come la sua musica, sempre in bilico fra gioia e dolore, salute e malattia. (Manuel Maverna)