LED ZEPPELIN "Led Zeppelin"
(1969 )
Nel sogno passeggio per il centro con un bel sacchetto: dentro ci sono i primi 4 dischi dei Led Zeppelin.
E’ tardi e da dietro un angolo sbuca un ladro, vede che ho dei dischi e tira fuori il coltello. Gli do' il sacchetto, guarda dentro e dice “Led Zeppelin? Che roba è?”. E’ un fan di Gigi D’Alessio, quindi la merce non è di suo gradimento, però in fondo non è cattivo e mi fa: “Te ne lascio uno, ma decidi entro un minuto”.
E’ un bel casino. Comincio a malincuore a cedere il Secondo: bello tirato, rock al 100%, grande John Bonham in “Moby Dick”, ma è quello che mi coinvolge meno. Ora si fa più dura, ma ho poco tempo: via anche il Terzo, con grande amarezza. Dovrò separarmi dagli urli micidiali del superblues “Since I’ve Been Loving You”, dall’incanto acustico di “Tangerine”, ma non ho scelta e devo anche spicciarmi a fare la scelta più impegnativa: Quarto o Primo?
Sudando freddo calo giù il Quarto, e così mi privo di “Stairway To Heaven”, che non ha bisogno di commenti, del mandolino ipnotico di “The Battle Of Evermore” e della solare “Going To California”. Il ladro se ne va, insoddisfatto anche lui, e io resto con un solo disco: “Led Zeppelin I”.
Per consolarmi che posso fare? Naturale, ascoltarlo. E più lo ascolto, più mi convinco di aver fatto la scelta giusta: in questi nove brani c’è già espresso al meglio tutto ciò che saranno i Led Zeppelin, c’è già la svolta decisiva che, a partire da solide radici blues, porterà alla nascita del rock duro e puro. Se poi in seguito la durezza prevarrà sulla purezza fino a sconfinare in un baccano infernale, la colpa non è di questi quattro autentici musicisti. Il loro dirigibile volerà sempre qualche migliaio di metri più in alto di tutto ciò che viene chiamato, a volte con troppa generosità, hard rock.
Le radici blues: “You Shook Me” e “I Can’t Quit You Baby”, di Willie Dixon, danno subito un’idea di ciò che i Led Zeppelin sanno fare con il blues, cioè sottolineare la congenita disperazione di questa musica fino a farne una specie di “blues portato alle estreme conseguenze”, un superblues appunto, in cui giganteggiano l’implacabile, pulitissimo battito di John Bonham e il lamento isterico di Robert Plant (memorabile il duetto alla fine di “You Shook Me” tra gli ululati di Plant e quelli della chitarra di Jimmy Page: due coyote con la luna piena).
Nelle composizioni proprie l’essenza del blues viene ancora più concentrata: “Dazed And Confused”, con le sue folli accelerazioni e improvvise frenate di ritmo, è una fantastica progressiva immersione nelle acque torbide dell’inconscio, da cui ci tira fuori come un raggio di sole che perfora le nuvole, come una prova dell’esistenza di Dio, l’organo bachiano che introduce “Your Time Is Gonna Come”, una parentesi serena che a sua volta sfuma in un sublime duetto di percussioni indiane (tabla) e di chitarra acustica, “Black Mountain Side”.
Proprio la chitarra acustica diventa protagonista assoluta nell’incredibile “Babe I’m Gonna Leave You”, per me la vetta dell’estasi in un disco che ne offre parecchia. La voce straziante di Robert Plant implora “Babe babe babe…” mentre Jimmy Page sfoggia il suo virtuosismo in preziosi arpeggi spagnoleggianti, alternati a brusche e potenti impennate rock che danno nerbo e sostanza: inimitabile.
In così tanta varietà alla fine a rappresentare il rock più semplice rimangono solo l’iniziale “Good Times Bad Times” e la frenetica “Communication Breakdown”. Sfugge ad ogni classificazione la funambolica “How Many More Times”, che inizia un po’ jazzeggiante, accelera in rock, poi rallenta con pause ad effetto, insomma per farla breve è un continuo cambio di ritmo e di tema, e chiude in gloria un disco che non lascia neanche un secondo non dico per annoiarsi, ma neanche per distrarsi. (Luca "Grasshopper" Lapini)