OUGHT "Sun coming down"
(2015 )
Se i Gang Of Four di Andy Gill e Jon King non fossero mai esistiti, gli Ought da Montreal, Canada, rappresenterebbero semplicemente ciò che sembrano: una intrigante, talentuosa formazione alle prese con l’ennesimo tentativo di rottura degli schemi prefissati dal rock. Ma i Gang Of Four esistono, e nemmeno da poco, senza che ciò – sia chiaro – vada in alcun modo ad inficiare il risultato finale della partita che Tim Darcy ed i suoi degni sodali giocano da almeno un paio d’anni con esiti sorprendenti. Curiosamente in bilico tra un’anima reazionaria ed una innata vocazione a vestire i panni del post-qualcosa, il quartetto bissa – cambiando solo di poco l’ordine dei fattori - lo stupefacente esordio datato 2014 (“More Than Any Other Day”, shock to the system di abbacinante imprevedibilità), riconsegnandosi per pura meritocrazia alle stellette dei critici e ad una notorietà di nicchia presumibilmente destinata ad accrescersi negli anni a venire. Sovvertendo le regole del canto, fratturando melodia e ritmica per ricomporle entrambe in fogge inattese, trafiggendo ogni cadenza con un chitarrismo sovente nevrotico che scavalca la new-wave ed i generi, questo improbabile post-punk lydoniano algidamente sghembo si immola, con apparente lievità e devota contemporaneità, alla commistione di istanze di disparata provenienza di cui si pasce. Sebbene volontariamente imbrigliato in un retrofuturismo tutto da interpretare, mai realmente gradevole, ma non per ciò meno sopraffino nella sua ostentata ricerca(tezza), “Sun Coming Down” si prefigge la lodevole, impervia finalità di indicare una imprecisata nuova direzione muovendo da una prospettiva scopertamente colta: tra echi di P.I.L., rimembranze dei Joy Division meno catacombali e suggestioni di Talking Heads, Fall e David Thomas, la band si proietta oltre i pilastri albiniani giungendo a lambire – negli accenti vocali - il disgusto lascivo del Lou Reed berlinese come la slabbrata catatonia degli Stranglers (periodo “Black and White”), offrendo una musica eminentemente intellettuale che gioca con le dinamiche e con incastri complessi per creare un effetto di continuo spostamento lungo percorsi mai lineari. Le strutture restano aperte, in lento divenire, sistematicamente deviando dall’idea iniziale per rifuggire la ripetitiva, schematica prevedibilità del verse-chorus-verse, in analogia con i primi Three Mile Pilot; è musica non bella, figlia di una cerebralità di matrice espressionista più che delle regole dell’intrattenimento, lontana progenie di una no-wave che dipana idee free-form incanalate in un canovaccio sonoro di massima: avulsi dalla concezione di una forma-canzone tradizionale, i brani sembrano vagare alla deriva senza condurre in alcun luogo (Slint docunt), definendo un album più sporco e deragliante di “More Than Any Other Day”, forse meno a fuoco, ma egualmente pirotecnico, inclassificabile, spiazzante, nebbioso crocevia che miscela Disappears e Sightings, Sonic Youth e The Van Pelt con un’assenza di grazia paradossalmente digeribile. La “Men for miles” che apre l’album impastando Thurston Moore e Stephen Malkmus assurge così a dichiarazione d’intenti, subito ingoiata dal passo à la Polvo di “Passionate Turn” (l’ultimissimo Bowie a braccetto – sic! – coi Rolling Stones?), o dal blocco di rumore scomposto di “The Combo”, porta di un abisso tanto indefinibile quanto attraente nella sua infida malìa: il clangore metallico à la Shellac che sbuca in un caotico magma di rimbombi e lacerazioni di “Sun’s Coming Down” depista ad ogni battuta, così come i quasi otto minuti di una “Beautiful Blue Sky” degna dei June Of ‘44 (incedere metronomico su cui si innesta un robotico crescendo parossistico del canto), o come l’accoppiata velvetiana che pare cementare idealmente “Celebration” e “On The Line” nel nome del compianto Lou. Quando “Never Better” chiude l’album in un nulla à la Suicide, senza che uno straccio di armonia abbia fatto capolino per quaranta minuti, resta sospesa a mezzaria la palpabile sensazione di trovarsi al cospetto di una next big thing la cui levatura è inversamente proporzionale alla godibilità che offre. Disco e band probabilmente geniali, anche se - giova ricordarlo - i Gang Of Four esistono, e nemmeno da poco. (Manuel Maverna)