LORENZO FELICIATI "Koi"
(2015 )
Rifuggendo dal ricorso - assai in voga - a trame votate alla sottrazione ed alla rielaborazione del minimalismo in chiave modernizzante, Lorenzo Feliciati, bassista romano dalla lunga e brillante militanza a fianco di decine di prestigiosi artisti – italiani e non – e membro di varie formazioni (Berserk, Naked Truth) con le quali ha pubblicato sei album dal 2003 ad oggi, realizza su etichetta Rare Noise Records “Koi”, lavoro di sontuosa eleganza imperniato su una peculiare ricercatezza stilistica e sonora. Proprio l’insistita fuga dal banale diviene tratto distintivo e si erge a sinonimo di esplorazione concettuale non ridondante, offrendo una musica gradevolmente complessa che si presta ad un ascolto mai disimpegnato, disposto altresì ad accogliere le molte asperità intellettuali di cui è disseminata. Disco sì ostico, ma paradossalmente intriso di una palpabile intensità emotiva, “Koi” consolida in ambito internazionale lo spessore di un musicista che si conferma anche valente autore, figura borderline – un turnista di lusso che diviene talora padrone della scena - la cui caratura è ben evidenziata dalla raffinata complessità di un’opera elitaria, ma capace di aperture che le riguadagnano un pizzico di indispensabile fruibilità. All’insegna di una mirabile ibridazione fra contemporanea, world music ed un jazz-core non insormontabile, scorrono in un ammaliante fluire dodici tracce (quattro sono brevi intermezzi) che giocano con disarmonie e tempi, in ciò sicuramente favorite dall’apporto ineludibile di Pat Mastelotto (King Crimson), Steve Jansen (Japan) e del pianista Alessandro Gwis, abili a pennellare, rifinire, sfumare cadenze ed accenti, cambiando di volta in volta veste e passo a brani in costante evoluzione. Sfilano così le suggestioni fusion à la Pat Metheny di “New House”, l’eco ambient e le lievi pulsioni etno di “Margata”, intrecci di sax, chitarra western e basso fretless in “Narada”, o ancora fiati, synth ed una trascinante linea di Feliciati stesso nel suadente andamento di “Oxbow”; frammenti di EDM ed arie sospese, incisi percussivi, progressioni à la These New Puritans e fiati sghembi (Nicola Alesini e Duilio Ingrosso al sax) conducono al gran finale, una sontuosa title-track introdotta da un inizio trasognato, scolpita da due diversi temi pianistici, sospinta addirittura da un accenno noisy con violino tzigano e risolta in una chiusa vagamente prog (un po’ Yes, un po’ Mike Oldfield). Tutte idee non lineari, sviluppate con brio ragionato e colta disinvoltura, che definiscono un album impreziosito dalle illustri collaborazioni e da una non comune sensibilità compositiva. Decisamente arduo, decisamente bello. (Manuel Maverna)