recensioni dischi
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PAUL MC CARTNEY  "Press to play"
   (1986 )

Un disco brutto, anche se dispiace dirlo. E' quello di Paul McCartney che sembra incidere per routine e non perché abbia qualcosa che valga la pena di far ascoltare. Il disco si chiama PRESS TO PLAY e le cose migliori dell'album sono la title track, che comunque vive di un'unica strofa, e la copertina: non tanto per l'immagine (lui e l'onnipresente moglie Linda in stile DOUBLE FANTASY di John Lennon) ma per il fotografo, che è George Hurrell, il famoso ritrattista delle dive degli anni '30. Un disco in cui l'IO smisurato di Paul McCartney sopraffà ogni cosa. Ormai a lui tutto è concesso e non c'è nessuno che gli negherebbe una collaborazione perché collaborare con Paul, anche per un artista affermato, è comunque una tappa importante. Quindi svogliatezza assoluta nelle canzoni, mancanza di stimoli e noia nell'ascoltatore. E pensare che con lui c'erano Phil Collins e Pete Townshend, cioè Genesis e Who, senza dimenticare Eric Stewart dei 10 CC. La cosa che più infastidisce chi normalmente ama McCartney è questo strizzare l'occhio ad una musica commerciale in stile elettronico pop dell'epoca, tipo Paul Hardcastle (quello di '19',) o a banalissimi brani dance. Ma come, tu Paul McCartney che ti adatti a ricalcare sonorità di altri e per giunta brutte? Tu che hai rivoluzionato la musica del ventesimo secolo? Allora ti devi fermare e capire cosa ti stia succedendo perché non puoi mettere in gioco la tua reputazione. Un conto erano le polemiche a distanza con Lennon quando ti accusava di fare muzak (musicaccia) e tu nel frattempo uscivi con cose meravigliose come MY LOVE o MULL OF KYNTIRE; un conto è fare quello che fai ora (1986), canzoni inutili, tanto per andare in sala d'incisione. Sicuramente il disco più brutto della sostanziosa discografia solistica di Paul McCartney. Tant'è vero che per un anno se ne sta buono buono a leccarsi le ferite per poi uscire con il pluripremiato ALL THE BEST, una raccolta di successi ed un inedito semplicemente meraviglioso, ONCE UPON A LONG AGO, alla fine del 1987 e presentato sul palco di Sanremo '88, per la prima volta ospite in tv in Italia. C'è anche chi difende il disco dicendo che Paul sta guardando in avanti, ai Genesis di INVISIBLE TOUCH o a David Bowie di TONIGHT, e chi lo incensa (le critiche di Billboard e della stampa inglese in generale) ma la pochezza dei contenuti è sconcertante: in PRESS il singolo, non si contano tutte le volte che ripete 'Darling I Love You Very, Very, Very Much' o 'Never Like This... it Was Never Like This'. Certo, la musica è di quelle che rimangono nella testa ma non può bastare. Il disco viene pubblicato a settembre in UK e raggiunge la posizione numero 8 nelle classifiche inglesi, la posizione numero 30 in America e la dodicesima qui da noi. Cosa dire ancora? Che il 33 giri dell'epoca aveva dieci tracce e il cd, uscito sempre nel 1986, tre bonus track. Nella riedizione in cd degli ultimi anni, le tracce sono diventate 15, con l'immissione di SPIES LIKE US, dal film con Dan Aykroyd e Chevy Chase, e della versione più lunga di ONCE UPON A LONG AGO. C'è una canzone che comunque, nella pochezza melodica del gruppo, risalta un po' di più ed è l'ennesima ballata intervallata da sprizzi pop e di elettronica: FOOTPRINTS, che parla della solitudine di una persona anziana i cui amici stanno morendo poco a poco e lui passa il tempo in un giardino pubblico sfamando gli uccelli e termina con "It's getting dark outside, the old man going home, has he someone waiting there or is he living on his own?" (sta facendo buio e ritorna a casa. Ci sarà qualcuno ad aspettarlo o vive da solo?). Ricalca un pochino la solitudine del personaggio di ELEONOR RIGBY. Le "orme" del titolo (footprints) sono quelle che il protagonista della canzone non ha mai fatto, che non ha mai lasciato sulla neve, le orme della memoria. (Christian Calabrese)