TANGLED THOUGHTS OF LEAVING "Yield to despair"
(2015 )
Lontano eoni da ciò che concettualmente e strutturalmente il post-rock rappresentò agli albori, l’odierna mutazione di un non-genere tanto significativo quanto paradossalmente indefinibile ha riguardato forme e idee, accentuando la propria disponibilità a contaminazioni più prossime alla psichedelia, all’ambient, perfino al doom, non certo conservando l’intento primigenio – operazione prevalentemente intellettuale - che ne motivò l’esordio. Discostandosi dall’archetipica decostruzione che caratterizzò l’intuizione di band assurte al rango di numi tutelari (Slint, Polvo, Don Caballero, Codeine, June of ’44), il post-rock contemporaneo punta all’arricchimento delle tessiture, non più al loro sovvertimento, in ciò rivelando una esplicita volontà di misurarsi con percorsi limitrofi dimostratisi – col senno di poi – compatibili anziché antitetici. Il quartetto dei Tangled Thoughts Of Leaving – australiani di Perth – pubblica “Yield to dispair” a quattro anni dall’ottimo debutto di “Deaden the fields”, che ne segnò l’ingresso in punta di piedi in quel mondo fatto di estenuanti, suggestive, evocative digressioni strumentali dilatate all’infinito, una terra di nessuno aperta ad una sperimentazione gentile, mai estrema, di rado aggressiva. Album maestoso che potrebbe costituire addirittura un punto di svolta per una scena che rischia – se non di inaridirsi – almeno di arenarsi nella ripetitività di stilemi tanto collaudati da rasentare la fossilizzazione, “Yield to dispair” pone le basi per una forma espressiva non direttamente riconducibile ad alcunché, arte nuova che, rinunciando ai cliché, prova a compiere un passo decisivo verso lidi ancora vergini. Le cinque lunghe tracce - settanta minuti di musica - che compongono un’opera di ribollente intensità si snodano sinuose, talora ingannevoli e sibilline, fra inserti di derivazione jazz (emblematico l’incedere della sezione ritmica all’inizio di “The albanian sleepover, part 2”) ed accenni di neoclassicismo da These New Puritans, passando per i gorghi infidi degli Ulver, per la tetraggine degli Earth, per gli abissi indefinibili degli ultimi Wolves in The Throne Room, in un percorso che rinuncia palesemente alla prevedibile linearità del post-rock in voga, profetizzando un verbo privo sia di un centro che di una direzione. Con rare eccezioni (il finale di “The albanian sleepover, part 1”), i quattro non ricorrono né al classico crescendo emotivo di stampo chitarristico che ha reso grandi e riconoscibili band oramai considerate seminali come i Godspeed You!Black Emperor o i Mogwai, né alla stasi trasognata degli Explosions in The Sky o a certe violente deflagrazioni tipiche dei Mono: lo sviluppo dei brani, fra una eco pinkfloydiana e titaniche, dense saturazioni materializzate dal nulla (il finale dei diciotto minuti di “Downbeat”, Wagner in tempo dispari), è scomposto, minaccioso, stridente nella sua alternanza di elementi impronosticabili a priori. Le strutture lambiscono a tratti l’impro-jazz, talvolta digradando in avanguardistiche cacofonie di puro noise, ma rifugiandosi inattese sia in ampie oasi pianistiche figlie della musica da camera (la title-track risolve un ingorgo monocorde proprio in una stralunata fuga di pianoforte), sia in variazioni oblique che tendono all’astrazione e rifuggono da derive barocche o virtuosismi di maniera in un fluire incessante che non esplode né implode. Lavoro di enorme spessore artistico ed intellettuale, operazione che relega in secondo piano l’aspetto strettamente musicale per concentrarsi sulla costruzione di un linguaggio comunicativo inedito, “Yield to dispair” contribuirà forse, in tempi non brevi, a traghettare il post-rock – o chissà cos’altro - verso territori inesplorati. Album futuribile, geniale, probabilmente fondamentale. (Manuel Maverna)