recensioni dischi
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CLAMIDIA  "Al mattino torni sempre indietro"
   (2015 )

Secondo album – il terzo considerando l’ep di esordio - dei Clamidia, quintetto attivo da oltre un decennio fra le aggrovigliate spire dell’indie-rock nostrano, “Al mattino torni sempre indietro” può vantare sia l’illustre produzione di Umberto Palazzo, sia la profferta di una spiazzante commistione di istanze di varia ascendenza. In un disco oscuro e desolato, mai baciato da spiraglio di luce alcuno nè da salvifica grazia, si susseguono brani esangui capaci di esprimere un disilluso sconforto per il tramite di architetture sonore volutamente démodé: tracce stilisticamente perfette nella loro riproposizione oltranzista di un microcosmo artistico direttamente mutuato dalla new-wave dei tardi ’80 (emblematica l’opener “La croce”) vengono proposte in una veste che forse non sempre ne esalta l’intrinseco spessore, ma che comunque ne connota la peculiare scelta espressiva. Se il rischio sotteso è in parte quello di ingabbiare una sfavillante inventiva nella morsa di un sound che a tratti la soffoca, è d’altro canto evidente come il gruppo abbia ben chiare intenzioni ed idee, unite alla capacità di servirle con sontuosa eleganza e con gradita – invero rara oggigiorno - proprietà di linguaggio, in una tesa alternanza di vivide immagini, fotogrammi sfuocati, tetre suggestioni e soffocante cupezza. Fra il pulsare del basso in primo piano à la Simon Gallup, ed una seconda chitarra talora schiacciata sullo sfondo come in un disco dei Dream Syndicate (ad esempio in “Fondazione nuovo sentiero”), si snodano episodi che flirtano timidi col mainstream (“La sposa suicida”, con un canto fin troppo ammorbidito riscattato da una bella coda strumentale) e derive che lambiscono i Massimo Volume (“Spazi pubblici per scambisti”, nobilitata dall’impennata vocale finale che le permette di virare altrove), nonchè una parte centrale forse eccessivamente ruvida e non del tutto equilibrata (“Ulisse”, con una ritmica compressa à la Helmet, “Sotto il diluvio” e “Controfigure”, magari più adatte ad un taglio schizoide da Pierpaolo Capovilla che non al nerboruto approccio scelto). E’ tuttavia nel trittico conclusivo che la band raggiunge l’acme della propria ispirazione: nell’infido, impercettibile crescendo di “Assalti ai muri” così come nel controtempo insistito de “L’agguato”, ingannevole armonia obliqua à la Marlene Kuntz finalmente contrappuntata da una chitarra ben evidente e da un pianoforte ammaliante, ma soprattutto nella sofferente, agonizzante resa di “Redenzione e grazia”, depresso rallentamento che stilla mestizia su una interminabile dilatazione sospesa a mezz'aria, tanto rarefatta nelle atmosfere disegnate quanto densa nella sua inesplosa intensità. E’ l’atto conclusivo di un lavoro encomiabile per coesione e caparbia coerenza, frutto di un progetto cui potrebbero forse giovare in futuro sia una modernizzazione dei suoni – che non giunga tuttavia a snaturarne l’essenza – sia una più spiccata dimostrazione di personalità nel canto, la cui autorevolezza tecnica rischia in alcuni frangenti di rimanere imbrigliata fra le maglie di un certo manierismo. Ottimi comunque, senza indugio e con ben poche riserve. (Manuel Maverna)