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JESSE MALIN  "New York before the war"
   (2015 )

Spavaldamente incurante di tendenze artistoidi varie, il quarantasettenne Jesse Malin, immarcescibile rocker newyorkese refrattario alle mode, pubblica ad un lustro di distanza dal precedente “Love it to life” il suo nuovo lavoro “New York before the war”. Lontanissimi oramai i tempi in cui l’afflato cantautoriale oggi prevalente veniva stravolto da un’attitudine più ruvidamente stradaiola (i tre album dei D-Generation, di cui Malin fu frontman una vita fa), fra ascendenze convintamente ribadite ed onorevole devozione alla causa, Jesse verga l’ennesimo onesto capitolo di una solida carriera mai realmente segnata dal crisma della notorietà da classifica. Ma di Jesse Malin, mestierante esperto che ha masticato strada e calcato assi di innumerevoli palcoscenici, ti puoi sempre fidare: “New York before the war” scorre via veloce senza lungaggini né intoppi, ruspante disco da highway che-più-americano-non-si-può, carrellata scoperta e smascherata di standard a stelle e strisce che mira ad allietare con lievità, non certo a sorprendere, né tantomeno a scioccare. Album disimpegnato senza troppi fronzoli, naviga senza particolari pregi né rimarchevoli difetti dispensando buone intenzioni e massicce dosi di caro, vecchio rock’n’roll. Fra palpitanti ballate (l’iniziale “The dreamers”, screziata da un arrangiamento non banale, la zuccherosa “She’s so dangerous”, la conclusiva “Bar life”, episodi sì manieristici, ma di rara intensità) ed uno shuffle da Van Morrison (“She don’t love me now”), schegge di bel country leggero (“Addicted”), sberle à la Tom Petty (“Turn up the mains”, con ritmo southern da Creedence Clearwater Revival) ed un groove bubblegum che fa tanto college-rock (“Deathstar”, improbabile ibrido fra Weezer e Roy Orbison), Jesse veleggia tranquillo in acque placide, solcando mari che ben conosce. Nessun azzardo, ci mancherebbe, forse soltanto un piccolo scostamento dalla via maestra nel passo quasi baggy di “Boots of immigration” (un po’ Ultravox, un po’ Killers), ma nulla più di un timido diversivo subito ricondotto sulle più consone piste già battute del rock’n’roll da fm, a conti fatti la nicchia che forse oggi Jesse mostra di gradire maggiormente (“Oh Sheena”). Anche se a tratti sembra di trovarsi a ballare canzoni di Tracy Byrd in un locale di line-dance (“Bent up”, con rigoroso cappello da cowboy e stivali in pelle), a prevalere è uno spirito indomito capace di insinuarsi tra le pieghe di passato e presente con quella maestria da consumato istrione che in quarantacinque minuti di gradevole intrattenimento sa regalare, senza apparente sforzo, tutto l’essenziale. Una certezza. (Manuel Maverna)