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AMAURY CAMBUZAT  "Amaury Cambuzat plays Ulan Bator"
   (2015 )

Se ti chiami Amaury Cambuzat e sei il leader di una delle più rilevanti band post-rock europee dell’ultimo ventennio (il seminale ensemble italo-francese Ulan Bator), ti puoi permettere ciò che vuoi, anche di giocare con le canzoni. Se poi le canzoni – il termine è riduttivo, meglio sarebbe forse definirle “composizioni” - sono le tue, ti è dato farne ciò che credi, anche scarnificarle fino all’anima e rileggerle in veste ignuda, si direbbe quasi silenziosa. La passione per gli Ulan Bator, ça va sans dire, è direttamente proporzionale alla naturale perplessità che una siffatta operazione può suscitare, e confesso di avere trascorso non poco tempo ripassando in rassegna le versioni primigenie delle dieci tracce qui riproposte da Amaury in disadorno unplugged: elaborata secondo una concezione modernista esaltata dal collettivo, per sua stessa natura refrattaria ad una rilettura in chiave acustica, la musica colta e cerebrale degli Ulan Bator svela sì nella rivisitazione di Cambuzat il suo lato più raccolto ed intimista, ma si vede depauperata dell’appeal che le dinamiche di gruppo sapevano conferirle, esaltandone la profondità. E’ musica di ineffabile raffinatezza, quella degli Ulan Bator, costruzione astratta volta ad esplorare le possibilità del singolo accordo mediante variazioni infinitesimali del tema o grazie alla gestione dei contrappunti, innestati su un tessuto che procede per continua reiterazione delle figure, musica che rivela, se spogliata, la propria innata anima monocorde, quasi i brani nascessero già arrangiati, mal prestandosi alla ripulitura: se private dell’intelaiatura che le sorregge, le trame ordite tendono a dissolversi, anzichè acquistare spessore. Non è un caso che le tracce meglio adeguate alla rilettura siano le più prossime – per quanto possibile – al mainstream, ossia l’accenno di ballata di “Along the borderline” o la chiusa sospesa in minore di “Terrorisme erotique”, o ancora la breve digressione di “Mister Perfect”, ad un passo dai Louise Attaque più oscuri. Purtroppo non sempre il trucco sortisce l’effetto sperato, e così “La joueuse de tambour” perde per strada le sue note di piano, il drumming jazzato ed il crescendo emotivo senza mai riuscire a lievitare; l’ingorgo impossibile e straniante di “Lumiere blanche”, brano ostico originariamente giocato su dissonanze e disarmonie assortite, palesa la propria riluttanza ad essere scisso nelle sue varie componenti, così come la splendida “Embarquement”, brano tra i più suggestivi dell’eccelso “Vegetale”, smarrisce completamente l’aura trasognata e la incombente solennità per evaporare senza costrutto in una nebbia indistinta. E si potrebbe continuare all’infinito, sottolineando come “Soeur violence” si tramuti in una aspra cantilena da Noir Desir (o da Eiffel), con una improvvida coda per chitarra, maracas e voci doppiate, o come “Hiver” zoppichi maldestra in una riproposizione che allunga addirittura di un paio di minuti l’originale (tesissima ed assai prossima a certe armonie “statiche” dei C.S.I.) senza aggiungervi nulla se non un inconcludente finale sospeso, ma equivarrebbe a sprecare tempo in sterili elucubrazioni. Di certo questo selezionato pugno di canzoni non escono dal risciacquo arricchite o abbellite, nè offrono la migliore occasione per accostarsi ad una band che fino ad oggi ha solo in parte riscosso il riconoscimento e l’esposizione che meriterebbe: non sono le canzoni ad essere sbagliate, nè la loro interpretazione, ma forse l’idea di fondo – che snatura senza rifondare - si può considerare quantomeno discutibile. C’est dommage: questo disco è come una bellissima donna discinta, che per una volta avrei preferito vedere vestita. (Manuel Maverna)