FELPA "Paura"
(2015 )
Secondo album sotto il moniker Felpa, progetto solista di Daniele Carretti degli Offlaga Disco Pax, “Paura”, prima uscita dopo l’improvvisa e mai metabolizzata scomparsa di Enrico Fontanelli nell’aprile scorso, segue di un anno e mezzo il debutto di “Abbandono”, del quale conserva intatta l’impostazione intimista, ma da cui si discosta con garbata eleganza grazie ad un eccelso lavoro su suoni ed atmosfere, ridefiniti e ridisegnati ad arte. “Paura” è un piccolo, fragilissimo disco inevitabilmente triste, compassato, dimesso, ammantato di una grazia sopraffina, afflato confessionale e vibrante di un artista che, con pudica ritrosia, si schermisce celandosi alla vista; la sua tenue filigrana ricorda egualmente – per l’intento in primis – l’esordio dei New Order all’alba del risveglio post-Curtis, così come i paesaggi meno aspramente espressionisti dei Cure (“Inverno” e quella linea di basso) o l’eterea foschia dei Cocteau Twins con il suo timido corollario di misurata elettricità (“Momenti”). E’ un delicato acquerello, intriso di una ovattata melanconia cui soccombere in consapevole resa, cornucopia di canzoni che vivono di una ossimorica esile maestosità, modulazioni minimali figlie lontane dell’atavica idea di shoegaze sopravvissuta alle mode di ventura, e qui rielaborata in fremiti gracchianti, realistici brividi a fior di pelle. Tra una suggestiva apertura baustelliana (“Accanto a te”) e la traslucida vaghezza di una dark-wave d’antan (“Paura mai”), affiorano echi di Belle And Sebastian e di Joy Division del crepuscolo, insieme alla più vivida rievocazione mai udita degli indimenticati Scisma (emblematico l’arrancare sofferente di “Sempre dopo”); il canto solo apparentemente distaccato tratteggia con desolata introversione l’arpeggio scarnificato di “Stanotte” e la tremante ballata metronomica di “Estate”, fino a sottrarsi - timorosa - nei trasognati arabeschi strumentali di “Buio” e “Spazio”, scheletrici ricami soavi che ricordano la carezzevole malìa dei Desertshore di Phil Carney, spirali di fumo che si librano in volute talora celestiali. Il “non avrò paura” che si ripete ciclicamente di canzone in canzone, da “Inverno” alla conclusiva “Luce”, è un appunto di viaggio o un monito a sé stesso, esortazione sussurrata davanti allo specchio col flebile bisbiglio di certezze traballanti, unico possibile suggello ad un album sinceramente toccante nella sua scarna, cristallina purezza. Splendido. (Manuel Maverna)