THE RAMBLING WHEELS "The thirteen women of ill repute"
(2015 )
Formatisi a Neuchatel nella Svizzera francese, The Rambling Wheels sono un quartetto che di transalpino non conserva davvero nulla tranne le origini: non l’idioma (cantano in un Inglese buono, ma non impeccabile), nè tantomeno la scrittura, che con sporadiche eccezioni (la ballata folkish di “Marylou”, nell’ibrida vena western dei Merzhin) privilegia stilemi mutuati da modelli anglosassoni. Terzo album della band, se si eccettua il debutto autoprodotto del 2005, “The thirteen women of ill repute” mira in molte direzioni centrando di rado il bersaglio grosso: musica sostenuta nella quale prevalgono con forza elementi ritmici, ma che difetta palesemente di personalità così come di guizzi invoglianti al riascolto, quella dei Rambling Wheels è una energica sventagliata di ragionata aggressività che gioca con riff e chorus impastando le più disparate istanze in un mix caotico e disomogeneo, capace di rubacchiare a destra e a manca con poca inventiva e parecchia faccia tosta. Fra echi di Police alle prese con i Beatles (“Cassius versus the world”), scimmiottamenti degli Aerosmith più edulcorati (“Giving all the gold”), derive che lambiscono qua gli Strokes (la strofa di “How it blows your mind” ricorda pericolosamente “Reptilia”, sonorità comprese) là gli Arctic Monkeys (“My lady”, col suo insulso coro finale, o “Running after time” sulla scia dell’ultimo “AM”), quella inscenata è una mascherata indecisa sulla direzione da prendere, incerto teatrino d’avanspettacolo che poco dice, non già per difficoltà espressive, ma per mancanza di argomenti validi. Buoni i suoni e la produzione, ma a latitare sono proprio le canzoni, che quasi mai riescono a deflagrare in qualcosa di realmente interessante o accattivante: fra distorsioni di maniera (“Shadows we’ve become”, “Wake up”, forse gli episodi migliori) ed un trito pulsare brit-pop (la scontata “Dead on time”, la pasticciata “Interstellar riot”, che regala almeno una inattesa accelerazione), i quattro riescono nella vituperabile impresa di non azzeccare davvero nessun brano, pur risultando paradossalmente tutt’altro che sgradevoli (emblematico il twist di “Night & day”, che non riesce a chiudere in un ritornello vincente la discreta armonia di apertura): per citare Cristiano Santini dei Disciplinatha, “E non m’annoio, no che non m’annoio/Però non mi diverto”. Bello il concept del sito internet della band: forse la loro cosa migliore, ed è tutto dire. (Manuel Maverna)