EDDA "Stavolta come mi ammazzerai?"
(2014 )
Impietoso fustigatore del sé stesso che fu, mutato da una metamorfosi chissà quanto reale o dissennatamente inscenata, Stefano Rampoldi, in arte Edda, si è ridestato dall'incubo mortifero che ne tormentò vita e carriera, reinventandosi piccolo padrone dello scricchiolante palcoscenico improvvisato al centro della burrasca. Burrasca che è stata e che oggi, forse, ancora è. Re per una notte, maciullatosi e ricompostosi in fogge impreviste ed imprevedibili, questa folle anima deviata, musa struccata che gigioneggia bislacca sputando col feroce orgoglio del sopravvissuto nel piatto in cui si è costretto a mangiare, grazie a quella cieca caparbietà che varrebbe da sola il prezzo del biglietto, ha saputo trarsi dal guado che lo vide sprofondare, rinascendo inatteso nel mezzo del cammino. Ma le cicatrici – non solo sulle braccia – sopravvivono al tempo, celate dall'abito di scena che di volta in volta, giullare straziato e maligno al cospetto di nessun sovrano, il redivivo divo indossa: guarito sì nel sangue – ma fatalmente impuro nel pensiero - dal flagello eroinomane autoinflitto, Edda si è alfine restituito a vita nuova – a vita altra – in un limbo né migliore né peggiore, in un passabile eden disseminato di sporcizia, di ricordi deformati, di trappole fetide occultate da aiuole ingannevoli. Lungi dal rappresentare il simulacro dell'umana disperazione che taluni critici vorrebbero incarnasse, né tantomeno l’icona di quella redenzione tout court che lo renderebbe accetto trionfatore sul Male, il cantautore-Edda (mi si perdoni l'appellativo improprio) è oggi non un'anima persa né un angelo caduto col suo corollario di annessa malvagità: è forse un'anima corrotta, spirito che la salvezza del corpo non è riuscito a rabbonire, né ad ingentilire a guisa di miracolato. Ai margini di ogni possibile canonizzazione salvifica, Stefano Rampoldi, giunto al terzo album in cinque anni in veste di Araba Fenice, animato da una diligente, controllata furia, séguita a rendere il suo non-meglio-identificato uditorio spettatore di un esplicito abbrutimento, fatto di un inclassificabile, claustrofobico, venefico turpiloquio erga omnes e di immagini intrise di una greve – ma necessaria, addirittura imprescindibile - trivialità. Il truce maleficio non vuole stregare né ferire: pare piuttosto mirare alla catarsi, ad una purificazione psicanalitica nella quale l'ascoltatore impotente è il transfert, e nulla più. E' un mondo, quello di Edda, che intreccia reale e visionario, una allucinatoria corte dei miracoli ove ogni etica è dapprima rovesciata, indi violentata, infine uccisa. Un mondo nel quale la scena appartiene quasi sempre a figure femminili (Edda stesso si declina al femminile in prima persona), nessuna delle quali idealizzata, men che meno accostata alla grazia, alla bellezza, alla purezza, canoni dissolti a priori dalla loro stessa inconsistente insussistenza: è un bestiario punteggiato di losche figure che negano umanità, compassione, benevolenza, compartecipazione. Quella di Edda è la più classica affermazione – sentenziata per agnizione – dell'homo homini lupus di hobbesiana memoria, principio ribadito con lucida follia attraverso una confessione urlata priva di filtri né remore, senza vergogne da sminuire né spigoli da smussare. Edda non è più – come qualche autorevole penna lo ha definito - un rocker, nemmeno sui generis: lo è stato, ma oggi – ne sono quasi certo – non gli importa più nulla del rock, dei riff, della metrica, del ritmo, dell'andamento dei brani, delle sequenze degli accordi, dei ritornelli, del senso ultimo di ciò che canta. Edda ha passato la cinquantina, è un uomo che dorme poco, che recita mantra hare-krishna (la sua fede e salvezza da venticinque anni) a notte fonda e che va a letto presto, un uomo che un demone silenzioso costringe ogni tanto a gridare ancora. In questo mazzo sfiorito di canzoni straziate che è “Stavolta come mi ammazzerai?”, disco meravigliosamente orribile, martellante agonia latrata fra istrionismo e sfrontato dileggio, si affollano sordide presenze deviate, in un continuum che si snoda ostico ed infido tra l'opener “Pater” (che narra di abuso su minori) e la chiusura di “Mater”, un tortuoso e torturato percorso in uno sfigurato album di famiglia (“Coniglio rosa”) popolato di sgualdrine (tremenda l’oscena bordata di “Ragazza porno”) e perdenti (“Mela” e “Tu e le rose”, brandelli di amori sgualciti), di molta eroina con la sua presenza strisciante ed assidua (“Ragazza meridionale”, “Yamamay”, “HIV”, “Mater”, ancora “Ragazza porno”), di parassiti e volgarità. In un registro vocale che oscilla tra il Manuel Agnelli più vibrante e vero ed un brutale espressionismo attoriale da Pierrot Lunaire (“Stellina” dilaga tra urla sguaiate, rigurgiti gutturali ed una lasciva brutalità), supportato da strutture che mai come ora sembrano recedere verso andamenti più inquadrabili (“Piccole isole”, “Puttana da 1 euro”, la quasi scherzosa “Mademoiselle”), Edda sbraita ed incanta, gorgheggia e bercia, strepita e sussurra, completando il rito pagano con il supremo atto conclusivo che suggella l'album. Dopo “Mater”, che pare chiudere il cerchio, c'è la canzone numero 17: si intitola “Saibene”, inizia con una intro di piano e prosegue con quella che è probabilmente l'unica, timida, barcollante apertura verso uno straccio di sentimento, forse il massimo dell'intimismo cui Stefano Rampoldi possa giungere. E' una canzone amara, di sconfitta; è una confessione, una resa, una prova tecnica di testamento, un'ammissione di colpa, l'equivalente della reznoriana “Hurt” in coda al massacro di “The downward spiral”: è una canzone triste, forse la sola in cui Edda abbia accettato – chissà con quale sforzo – di levarsi la maschera per tre minuti, una canzone che parla finalmente di un vero sè, mettendosi quasi a nudo, in un angolo, ad aspettare qualcosa. Disco immenso: non disperato, non rabbioso, non rock, disco che forse nemmeno è musica: è altro, è altrove. (Manuel Maverna)