GILLIAN WELCH "The harrow & the harvest"
(2011 )
Bella di una sua bellezza acerba/bionda senza averne l’aria/quasi triste come i fiori e l’erba/di scarpata ferroviaria, la cinquantacinquenne Gillian Welch, figlia adottiva di natali newyorchesi, californiana per lungo tempo ed oggi nashvilliana giocoforza, è una diafana signora dai lineamenti decisi e dai modi gentili con una laurea in musica a Berklee, culla del fruttifero ed indissolubile sodalizio con David Rawlings, sopraffino chitarrista acustico e partner artistico da oltre quattro lustri.
Con l’eleganza e la sobrietà che da sempre la contraddistinguono e ne connotano la proposta, nel 2011 Gillian abbandona il tentativo – non disprezzabile, ma forse inadatto a valorizzarne la caratura – di spingersi verso il folk-rock più accessibile che aveva caratterizzato l’ultimo lavoro in studio (“Soul journey” del 2003, realizzato con una band al completo) per ripresentarsi dopo ben otto anni di assenza dalle scene in una veste nuovamente legata ai crismi della tradizione più ancestrale. Al riparo della sua roccaforte e con il solo supporto di Rawlings, la Welch inanella dieci intime tracce intense ed introspettive, sebbene assai impegnative sulla lunga distanza; ogni sillaba, sospinta da una (in)dolente sofferenza, scava la propria nicchia in un album di faticosa, non immediata assimilazione, un lavoro di cesello interamente giostrato sulla voce carica (ma sempre venata/velata da una impercettibile slackness di fondo) di Gillian e sugli incessanti contrappunti della chitarra di David.
Non sorprenda pertanto che i momenti migliori coincidano con gli episodi in cui il dinamismo della ritmica – definita unicamente dalle due chitarre – si fa più serrato (“The way it goes”, perfetta nel suo andamento quasi cajun, così come l’aria old-time di “Six white horses” o il bluegrass di “Silver dagger”), o laddove l’armonia del brano sia affidata a variazioni più consistenti delle consuete tonalità impiegate (meraviglioso il blues d’antan di “Dark turn of mind”, con un paio di accordi semplicemente divini a scolpire l’inciso).
Nel complesso, tuttavia, le scosse sono infrequenti: in gran parte delle composizioni - rallentate nell’andamento e cantilenanti nella vocalità (è il caso di “Down along the Dixie Line”, tra la work song e lo spiritual) - a prevalere è un passo ostentatamente laid-back che appesantisce un lavoro la cui cifra stilistica rimane comunque eccelsa, a patto di accettarne fin dall’inizio il piglio dimesso e quella patina di pigrizia antica che ne riveste le trame. Mentre lo scenario di fondo languisce immutato nel suo fosco pallore, Gillian prosegue laconica nel narrare storie di perdizione e redenzione, sempre raccontate (emblematico il blues esitante di “Tennessee”, agghiacciante la murder-ballad di “Scarlet town”) da fulminee immagini appena accennate che si ricompongono solo nella mente dell’ascoltatore, seguendo un processo di scrittura volutamente scarnificato, ermetico a suo modo.
Disco sontuoso che ha segnato brillantemente l’attesa rentrée di un’artista colta e raffinata al crocevia tra il country dei pionieri ed un blues rimodellato, “The harrow & the harvest”, album dalla lunga e travagliata gestazione, ha condotto Gillian Welch ad una nitida, indiscussa riaffermazione sulle ali di una musica gentile e suadente, lieve ma passionale nel suo garbato sfoggio di cristallina classe e spiccata personalità. (Manuel Maverna)