GODSMACK "1000hp"
(2014 )
Signore e signori convenuti a questo rutilante e roboante show, siete pregati di mettere alla berlina le vestigia dell’avanguardia, l’audacia della sperimentazione, ogni traccia di spocchioso snobismo ed eventuali – stavolta indesiderate – ascendenze intellettualistiche: si esibiscono per voi i Godsmack, originari del Massachusetts, sulle spalle vent’anni di carriera e sei album, almeno tre dei quali finiti dritti al numero 1 delle charts d’oltreoceano nonostante l’abrasività brutale della proposta. Venti milioni di album venduti, la vetta delle classifiche conquistata perfino da una manciata di singoli, i quattro membri attuali, trainati dalla traboccante leadership del vocalist e multistrumentista Sully Erna, dopo uno iato di quasi quattro anni si ripresentano con un nuovo album trucido e chiassoso e con l’immutata, virile veemenza che ne aveva contraddistinto i precedenti lavori. In fin dei conti, niente altro che un inveterato, immarcescibile clichè: quattro americani iperprodotti, con i chitarroni sparati in aria a fare un gran baccano, magari mascherando canzoni non irresistibili grazie ad una buona dose di hype e di furbizia da mestieranti. Pronti, partenza, via: niente acrobazie funamboliche nè virtuosi tecnicismi, solo variazioni infinitesimali sullo scarno tema di base, quarantacinque minuti di stordente metalcore, dieci granate che si affidano a suoni deflagranti in grado di produrre il massimo effetto dirompente senza pretendere di cambiare il mondo nè fondare un culto. Tra sventagliate di riff tellurici e volenti/nolenti richiami ora ai Metallica (in “Turning to stone” manca solo James Hetfield, ma Erna sa il fatto suo, ça va sans dire) ora addirittura agli Offspring (“FML”), tra bordate da Guns N’ Roses (“Generation day”, con una bella parte centrale arricchita da un arpeggio rilassato) ed assalti a doppia cassa (“What’s next?”, con una suggestiva, timida eco di Iron Maiden in testa ed in coda) sfila una musica rude, sì trita ed abusata ma capace di conservare intatta una propria statuaria dignità senza mai degradarsi a power pop da college; come “Something different” non spreca una nota nè un’idea, treno in corsa con annesso chorus indelebile, così la title-track in apertura è una sassata autoreferenziale che ripercorre le tappe di una carriera scintillante, coerente e profondamente onesta, una cavalcata hard-boiled schiacciasassi che tritura ogni buona intenzione grazie ad un tiro inesauribile. Sono solo due dei molti esempi possibili in un disco che rinuncia ad innovare, ma non per questo perde un’oncia della propria ferale intensità: su tutto troneggia lo spettro degli Alice in Chains, ma privi sia di violenza che di buona parte del pathos angosciato che rese unica l’icona rovesciata Layne Staley, al cui registro vocale quello di Sully Erna si avvicina paurosamente, conservandone sia il timbro che la bislacca pronuncia di alcune sillabe, seppure disperdendone l’intima desolazione. Per quanto mi riguarda, prima di togliere dal lettore “1000hp” e rimetterci i These New Puritans penso che premerò il tasto play per la terza volta di fila, ma vi prego: non ditelo in giro. (Manuel Maverna)