ALICE IN CHAINS "Dirt"
(1992 )
Questo disco è una stanza senza porte e senza finestre, è il vestibolo dell'inferno, l'anticamera dove un uomo attende solo l'ineluttabile ora del trapasso. Questo disco non ha colori che l'occhio umano percepisca come gradevoli: è solo un'interminabile, estenuante sequenza di grigio, marrone scuro, verde opaco, nero ed ombra. Non c'è un lampo, un’impennata, uno straccio di melodia che sia più di un accenno, uno sprazzo di luce, un’emozione positiva, un sentimento diverso da un truce disfattismo vittimista autoreferenziale. Il canto straziato di Layne Staley non possiede – ad esempio – la folle schizofrenia di Cobain nè il trasporto viscerale di Vedder, ma solo il lamentoso cantilenare del moribondo; è una voce impastata, spesso truccata, filtrata da effetti che la storpiano, doppiata da cori o riverberi, la voce nascosta di un uomo-fantasma nascosto a sua volta dietro il paravento della propria dipendenza. La musica è dolente, straziante, fastidiosa (il ritornello insistentemente spezzato di “Angry chair” ne è un esempio), priva di qualsiasi spunto che possa alleggerirla per un fugace istante (ci prova “Rain when I die”, ma collassa su sé stessa); è musica che manca di un contrappunto chitarristico intrigante o di una linea di basso insinuante, musica opprimente che non regala nemmeno la consueta, scontata alternanza quiete-furia, proponendosi come la sola possibile colonna sonora del martirio personale ordito da una mente perduta e corrotta. E’ uno sferragliare disarmonico e spigoloso che miscela sonorità metal (“Dam that river”) e nichilismo grunge (le due terrificanti bordate di “Sickman” e “Junkhead”), contaminandole con non poco blues mascherato, specie nei brani interamente firmati da Cantrell (“Rooster”, “Down in a hole”, “Would?”), non a caso tra i pochi momenti appena più accessibili rispetto al resto del fosco caravanserraglio di abbruttimento e miserie umane eretto da Staley. Quello stesso Staley che continua imperterrito ad impastare morte e gospel come un Ben Harper strafatto, salmodiando in un registro osceno, così lascivamente blues (spaventosa “Hate to feel” nella sua assoluta tetraggine emotiva) da suonare addirittura sorprendente, specie in quel bailamme trafitto da laceranti cadenze metalliche ora brucianti (“God smack”), ora stordenti (“Dirt”). Ciò che conferisce spessore ad un disco così lontano dalla bellezza è la sola dimensione esistenziale, che lo erge a testamento di una vittima designata e consapevole, un’anima che si è chiusa nell’angolo di quella stanza senza porte e senza finestre ad intonare il proprio canto funebre. (Manuel Maverna)