DAVIDE VAN DE SFROOS "Goga e magoga"
(2014 )
Il signor Davide Bernasconi, al quale voglio bene come fosse un parente stretto, mi ha sempre ricordato un antico cantastorie di piazza, aedo burlone capace sì di incantare il proprio fedele uditorio con sapide facezie, ma anche di sorprendere gli increduli astanti con profonde riflessioni sulla vita, sulla gente, sul tempo che scorre inesorabile come sabbia (rigorosamente del lago) nella clessidra. Fatalità, il tempo crudele travolge tutto e tutti nel suo ineluttabile gocciolìo, velando i fasti degli anni dorati di una patina sbiadita, sfuocando in un cantautorato oramai di maniera l’estro scintillante che ammantava i precedenti lavori di questo bonario, sagace, salace bardo dall’occhio penetrante e dalla favella pungente. Perché – si badi bene - l’occhio rimane lo stesso e la favella pure, ma scruta il primo lo stesso panorama di sempre e proferisce la seconda la canzone abituale: laddove “Yanez” rappresentava già una dignitosissima, ben celata flessione – artistica e creativa – rispetto ad autentici capolavori di un folk rurale con pochi eguali in Italia (i primi quattro lavori da solista sono altrettante pietre miliari, con in cima alla piramide il vertice assoluto dell’inarrivabile “Pica!”), “Goga e magoga” compie un ulteriore passo in direzione di quel già citato manierismo che tiene a galla un album piacevole sì, ma complessivamente innocuo. Manca la nitida caratterizzazione dei personaggi che ha reso indelebili molti episodi passati (dal Cimino al Ziu Gaetan, dal Sugamara allo stesso Yanez, dall’Alain Delon de Lenn al Genesio), si affievolisce la voglia, più che la capacità, di imbastire storie che valga la pena raccontare ed ascoltare (dalla Balera al Grand Hotel, ma la lista sarebbe infinita), mentre abbondano lo scavo intimista e la visionaria riflessione sulle cose ultime, in un fiume di parole che confondono senza affascinare in un affabulare talora stralunato (“Mad Max”), talvolta semplicemente inconcluso (“De me”, “Il viaggiatore”). Musicalmente, come si conviene al genere, pochi sono gli spunti che deviano dalla consuetudine (“Infermiera” ricorda “Ciamel amur”, mentre dal bridge di “De me” si potrebbe lanciare il ritornello de “La machina del ziu Toni”), e rare, ma per ciò stesso gradite, le sorprese: a partire dalla title-track, che per oltre sei minuti procede tesissima ed oscura su un insolito passo powwow (Scaruffi docet) come osava fare “Lo sciamano” sei anni fa, per proseguire con la cadenza accattivante della già rodata “El calderon de la stria”, con una “Figlio di ieri” che aggiorna il messaggio de “Il libro del mago”, o con i divertissement ignoranti di “Cinema Ambra” e di “Gira gira”, scherzi paesani nei quali Davide eccelle senza sforzo apparente; e sono toccanti la tromba mariachi che contrappunta “Crusta de platen”, o la desolata intimità de “Il re del giardino” e di “Colle nero”, la cui intensità stride al confronto di episodi più fiacchi ed inessenziali (l’accoppiata “Angel” - “Ki” apre l’album piuttosto debolmente). Disco di pura transizione che si lascia volentieri consumare, “Goga e magoga” è più filosofia che storia, album onesto che non aggiunge nulla o quasi alle molte gemme incastonate nella corona di questo piccolo grande re della canzone italiana, sovrano di un regno fiabesco nascosto in riva al lago, amato dal suo adorante popolo anche in tempo di carestia. (Manuel Maverna)