MANAGEMENT DEL DOLORE POST-OPERATORIO "McMao"
(2014 )
Ascoltatori occasionali, estimatori di ventura e fan più oltranzisti dei Management Del Dolore Post-Operatorio, band di Lanciano lodata per la veemenza smaccatamente punk (in corpore dance) e per la scorretta iconoclastia che ne caratterizzò indelebilmente sia ''Auff!!'' del 2012 che le brucianti performance on stage (Primo Maggio docet...), difficilmente potranno salutare questa nuova fatica del gruppo con elogi sperticati o entusiastico trasporto. Il sospetto, ad un primo approccio, è che il loro vulgar display of power prevalga non tanto sui contenuti, quanto sul tessuto che li riveste: strangolata da una scrittura sacrificata sull’altare di quella stessa attitudine che ne decretò l’originalità, la qualità di “McMao”, album che dìssipa la dote artistica accumulata, è inversamente proporzionale allo scaltro compiacimento dell’audience cui mira. Vero è che lo spirito bellicoso non flette, così come la verve di Luca Romagnoli, stentoreo vocalist e frontman istrionico capace di iniettare in questi undici (dieci più una cover) nuovi brani la linfa virulenta che aveva innervato l’urticante “Auff!!”, ma purtroppo l’affilata, sardonica sagacia che si intensifica negli episodi meglio congegnati (bello l’opener “La scuola cimiteriale”, sebbene l’inciso ricordi un po’ troppo la title-track di “Auff!!”) si incaglia nelle secche di rivedibili liriche non così intriganti da aggiungere interesse all’insieme; analogamente, il modo sfrontato ed amaramente canzonatorio - sublimato in “Auff!!” - di svergognare le umane bassezze e la gretta meschinità del popolo bue perde efficacia, soffocato sia dalla consapevolezza (che diviene totalizzante) del proprio potenziale live, sia da una scrittura condizionata dalla dimensione concertistica che la legittima ed alla quale è scopertamente funzionale. La letale conseguenza è un esasperante ricorso a facili rime (emblematica “James Douglas Morrison”), a proclami anthemici (“La rapina collettiva” non ha un metatesto: rimane soltanto ciò che è, ossia un brano banale), a slogan memorabili (“Oggi hanno ucciso un drogato/e ho visto Dio che ha pianto/perchè anche lui vorrebbe volare/ogni tanto”, canta Romagnoli nella tanto scontata quanto musicalmente valida “Hanno ucciso un drogato”), strategia comprensibile ma discutibile che sacrifica purezza di linguaggio e ricercatezza lessicale, oltre a deprimere la qualità di brani già non irresistibili. La più nitida prerogativa di questa band – ed il principale limite – continua a risiedere in una presuntuosa ostentazione di spavalderia, una spacconeria guascona che sminuisce tuttavia l’importanza della canzone in sè, immolandola all’immediatezza ed alla caparbia ricerca – pur forzata e sterile – del groove perfetto; e se da un lato la sfacciata lievità di taluni episodi tende forse a ridimensionare la credibilità dell’intero pacchetto (“Il cantico delle fotografie” suona come una brutta copia di “San Lorenzo” de I Cani, la censurabile “Il cinematografo” sfiora l’impresentabilità, l’inessenziale cover di “Fragole buone buone” di Luca Carboni è ben posta, ma avulsa dal contesto generale), dall’altro l’insistita caccia alla frase-ad-effetto rischia di penalizzare eccessivamente tracce incerte, a cavallo tra suggestioni umoristiche e piccata invettiva (“Il posto più pericoloso non è Baghdad/il più pericoloso è il cesso dell’università/il piscio a terra e intorno i figli di papà”, recita “Coccodè”), quasi i ragazzi preferissero un ruolo clownesco a quello – alla loro portata - di pungenti fustigatori del malcostume che a comun danno impera. Eccolo, il punto, ed ecco la delusione: quattro scomodi elementi, quattro furfanti da saloon, quattro gaglioffi da postribolo o sedicenti tali che – incredibilmente e contro ogni logica - non hanno saputo (o voluto) osare. Con sparute eccezioni (l’interessante, complessa “Requiem per una madre” poteva rappresentare un buon punto di partenza), in “McMao” latitano proprio le canzoni, le stoccate ferali, i guizzi illuminanti: inutile scandagliare l’album, che pure si lascia ascoltare, alla ricerca della risentita misoginia di “Amore borghese”, del toccante esistenzialismo de “Il numero otto”, della satira pecoreccia di “Pornobisogno”, della rabbiosa desolazione di “Nei palazzi” o tantomeno della feroce denuncia di “Norman”, perchè le vestigia del brillante, recente passato si rinvengono solo nel brano migliore, apripista designato nonchè primo accattivante estratto, quel “La pasticca blu” che azzecca una strofa tesa e ficcante ed uno sguaiato chorus da classifica fustigando alla cieca con l’abrasiva causticità che “McMao” invece smarrisce, chissà dove, chissà perchè. Promessa mantenuta solo in parte, i Management Del Dolore Post-Operatorio sono un gruppo vittima di sé stesso e della propria indole, manipolo di indomiti performer la cui ascesa alla vetta più alta rischia di rivelarsi più impervia del previsto. La meta – quella meritata e duratura fama, ancorchè di nicchia, riservata agli artisti di rango, non ai giullari - è ancora molto lontana, avvolta nella nebbia. (Manuel Maverna)