recensioni dischi
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BLOODY MARY  "Anno zero"
   (2014 )

Volendo restare ancorati alle rigide categorizzazioni che in passato definivano e caratterizzavano i diversi generi musicali, oggigiorno sempre più oggetto di contaminazioni trasversali, l’ambito del gothic-rock sembra essere tra i comparti che più di altri sono rimasti legati ad un contesto difficilmente superabile, espandibile, rinnovabile. Eppure il rock oscuro e decadente che Andrew Eldritch rese grande con i suoi seminali Sisters of Mercy riveste sempre un fascino sibillinamente perverso ed intrigante, come ben dimostrano di avere compreso i cinque Bloody Mary, band milanese in attività da quasi tre lustri, nel corso dei quali hanno ricevuto il plauso e le attenzioni dei discografici e del pubblico internazionale, pur continuando ad abitare un sotterraneo mondo di nicchia. Disco di maniera che non aggiunge nulla alla storia di questo angolo di rock, “Anno zero” (il titolo è la sola cosa in italiano, i brani sono giustamente in inglese, lingua che ad essi ottimamente si addice), terzo full-lenght in un decennio, si fa comunque notare per svariati elementi di interesse: in primis l’ottima produzione, che restituisce suoni equilibrati e conferisce all'insieme una levigata pulizia ed una sorprendente, gradevole fruibilità, in secondo luogo la qualità della scrittura e degli arrangiamenti, che contribuscono a mantenere l'album ad un livello eccellente senza che il pathos strisciante fletta mai per un istante. Infine, l'esecuzione dei brani, ricchi nelle dinamiche come nella rotondità dei suoni, è tale da non sfigurare al cospetto dei nomi più affermati del settore. Musicalmente, la deriva conduce la band a lambire territori più vicini al metal che non alla new-wave post-punk che partorì le migliori pagine del genere, giungendo talora a sfiorare certe cadenze di pop-punk melodico (“Frozen”, che assembla eterea oscurità ed un chorus contagioso): più Him o Lacuna Coil - o addirittura Rammstein nelle tracce più dure ("Concrete jungle") - che Sisters of Mercy (ma "I keep pretending" è uno schiaffo che sembra provenire direttamente da "First and last and always"), mentre vocalmente l'impostazione baritonale di Aldebran, la cui pronuncia dell'inglese appare decisamente migliorabile, richiama Peter Murphy ("So far away"), ivi compresa una intonazione melodrammatica che ben si adatta a linee melodiche sempre ben delineate, scolpite da partiture del basso tanto lineari quanto perfettamente funzionali alla resa finale. Più affine agli ultimi Bauhaus che agli inarrivabili Fields of the Nephilim, la cui visionaria trascendenza rimane inavvicinabile, "Anno zero" attraversa senza esitazione, e con ostentata, sciolta baldanza, una fitta coltre di tenebra, tra lontani accenni di Marilyn Manson ("The 3d chance") e ballate toccanti nella loro magnetica, indolente, cupa dolcezza ("Judith"). Niente di nuovo sotto la luna, ma ciò che brilla è splendido. (Manuel Maverna)