JAPAN "Oil on canvas"
(1983 )
Strana creatura, i Japan di David Sylvian. Grazie a cinque album realizzati nell’arco di poco più di tre anni, a cavallo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, il quartetto londinese si impose all’attenzione del mondo sia grazie ad un’immagine in linea con il look new-romantic imperante all’epoca, sia per merito di un approccio singolare e personale alle tendenze musicali del tempo: se alla base c’era una peculiare rivisitazione della disco-music in chiave new-wave, dall’altra una serie di stratagemmi li allontanavano dall’esposizione mediatica che mal si sarebbe coniugata con il taglio colto delle composizioni e con l’allure intellettuale propria della band. In un certo senso, i Japan rappresentavano uno dei possibili lati oscuri della new-wave: la loro era musica non abbastanza esistenzialista nè espressionista per porsi allo stesso livello di tetraggine dei Cure, ma al contempo così poco fruibile da precluderne l’accesso alla vetta delle charts. Bizzarro caso di synth-pop incentrato sulla forma più che sulla sostanza, i Japan furono maestri nell’ottenere il massimo effetto possibile da canzoni non irresistibili, ma arrangiate e prodotte in modo da apparire sontuose e ricercate. Più affini per atmosfere ai cupi Depeche Mode che alle icone pop Duran Duran, i Japan si affidavano prevalentemente all’accostamento di linee melodiche (in primis quella ineludibile costituita dal canto peculiare di Sylvian) capaci di creare disarmonie stranianti: il timbro del basso di Mick Karn, stravolto ad arte da artifizi sonori, generava incastri stordenti con la ritmica fratturata di Steve Jansen, mentre Richard Barbieri generava tessiture tastieristiche disturbanti sulle quali la voce baritonale ed elegante di Sylvian ricamava armonie sibilline. Disco live che paga dazio ai suoi trent’anni di anzianità (ricorda il “101” dei Depeche Mode, con il pubblico schiacciato sullo sfondo ed un effetto più simile ad un live in studio), il fortunato “Oil on canvas”, testimonianza storica di un act comunque significativo, raccoglie per la quasi totalità brani pubblicati sugli ultimi due lavori del gruppo, “Gentlemen take polaroids” del 1980 e “Tin drum” del 1981, insieme a tre brevi strumentali inediti; tra le onnipresenti suggestioni orientaleggianti (“Visions of China”, “Cantonese boy”) ed accenni di intimismo d’autore (la splendida, desolata e spettrale aria opprimente di “Nightporter”), il risultato complessivo non è quasi mai gradevole, nè quando il lato disarmonico si accentua (“Sons of pioneers”, tribale e percussiva, con un giro di basso irresistibilmente ossessivo), nè quando a prevalere è il puro intento danzereccio (“Methods of dance”). Ovunque la potenziale esplosività di queste tracce ostiche e slegate è attenuata dal ricorso sistematico a suoni che ne smorzano volutamente l’appeal, in un’operazione complessiva che mira ad elevare i brani ad un livello qualitativo superiore spegnendone gli ardori da classifica: rimangono settantadue minuti di faticoso ascolto, comunque intriganti nella loro altezzosa presunzione, sebbene del tutto privi di momenti realmente memorabili. (Manuel Maverna)