recensioni dischi
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TOM PETTY  "Full moon fever"
   (1989 )

Gloriosa icona ed autentica istituzione del folk-rock statunitense, alfiere della tradizione socio-culturale d’oltreoceano ed espressione di un modo tanto gentile quanto impegnato di cantare e celebrare un Paese in ogni sua sfaccettatura, Thomas Earl Petty, in arte Tom, può a buon diritto essere annoverato tra le grandi voci d’America, sebbene la sua notorietà, analogamente a quella di John Mellencamp e a differenza dei vari Springsteen, Dylan o Young, sia rimasta prevalentemente legata ad una specifica dimensione territoriale. Tra i primi cento artisti campioni di vendite nella storia della musica contemporanea, Tom Petty non è mai stato autore troppo prolifico, specie nella seconda parte di un percorso artistico varato in modo scintillante e costellato da alti e bassi fino alla definitiva rinascita rappresentata proprio da questo abbagliante “Full moon fever” del 1989: album rigenerante nella sua semplice, essenziale, scheletrica perfezione, seppe iniettare nuova linfa nel repertorio di Tom, riportandolo in auge ai fasti di inizio carriera, grazie soprattutto ad una ispiratissima miscela di realistico lirismo e di intrigante musicalità. Zeppo di intuizioni e ricco di pezzi-killer, l’album snocciola almeno quattro classici di Petty: l’iniziale ballata di “Free fallin’”, impreziosita da una mirabile apertura del chorus, il mid-tempo assassino di “I won’t back down”, la sassata sudista di “Love is a long road” e la cavalcata a rotta di collo della celeberrima “Runnin’ down a dream” basterebbero da sole a nobilitare un lavoro che rimane invece teso e vibrante per tutte e dodici le tracce che lo compongono. Tra accenni di country (“Yer so bad”, “The apartment song”), impennate ritmiche orbisoniane (“A mind with a heart of its own”), la cover di “Feel a whole lot better” dei Byrds, ed un paio di love-song rallentate ad arte (“A face in the crowd”, “Alright for now”), la premiata ditta Petty/Campbell/Lynne allestisce un caravanserraglio di volti, maschere e personaggi, sublimati nel più classico 4/4 – tra Steve Earle e i Cars - di “Zombie zoo”, con Tom impegnato a biascicare su una cadenza irresistibile una storia di drop-out nell’inconfondibile accento calcato del sud. Disco che scorre fluido e gradevole, lavoro capace di entusiasmare impartendo a generazioni di imitatori una lezione di sfacciata semplicità con una nonchalance tanto rilassata quanto irridente. (Manuel Maverna)