WARPAINT "Warpaint"
(2014 )
Strana creatura, le Warpaint di Emily Kokal. Autrici di una musica ostica, inizialmente figlia di datate atmosfere dark-wave mutuate dagli eighties, e declinate con proprietà nell’esordio del 2010, le quattro losangeline ritornano dopo più di tre anni con un lavoro che accentua l’ambiguità del debutto, riprendendone taluni aspetti senza tuttavia compiere alcun passo significativo in avanti. Deposte le chitarre, qui quasi assenti o al più arpeggiate sottotraccia, la band ribalta impiego e sonorità del basso, che da comprimario diviene protagonista, contribuendo a rimodellare, nella forma ma non nella sostanza, il layout di queste insolite armonie oblique; il disco fluisce così sul filo di un cupo rimbombare riverberato, più affine oggigiorno al trip-hop, al dub, al drum’n’bass piuttosto che alle arie indie che avevano caratterizzato “The fool”. In un album iperprodotto, levigato e livellato, le ragazze inscenano una performance subdolamente off nella quale ogni suono pare vagare asincrono, quasi ogni strumento vivesse di vita propria al di là del risultato finale, che pure è omogeneo e unitario; il canto di Emily e di Theresa Wayman svolge il solo ruolo che può ricoprire, in pratica, quello di strumento/suono aggiuntivo, di rado modulato oltre una flautata indifferenza tendente all’inespressività, in linea con la particolare scelta stilistica del gruppo. Sia grandezza o limite, la specificità del Warpaint-sound risiede ancora una volta nella sua stessa mancanza di punti di riferimento: le canzoni, nate dichiaratamente da improvvisazioni on stage ed in studio, non soltanto non progrediscono e non si sviluppano, ma vagano in un magma indistinto privo di un climax. Eppure è proprio questa ostinata, ostentata mancanza di linearità (perseguita non già per il tramite di brusche variazioni, bensì grazie a mutamenti continui ed impercettibili che portano il brano altrove rispetto al punto di origine) ad ammantare di una suadente, singolare malìa composizioni esangui che non decollano mai: sono brani che regalano sparute emozioni non per le armonie contorte che disegnano, ma per la possibilità che offrono di calarle/calarsi in uno stato di trance ipnotica comune a tutti gli episodi, pochi dei quali possono vantare l’impiego di una scrittura tradizionale. Si susseguono in un continuum ovattato le sincopi infide di “Keep it healthy” e le insinuanti disarmonie del singolo “Love is to die” (con un chorus che si abbassa su un cambio di tonalità e si spegne su un gorgheggio), le atmosfere plumbee di “Biggy” ed il ritornello-vocalizzo di “Teese” (tra i pochi momenti davvero easy del disco), la dance ossessivamente raggelante di “Disco//very” e la nenia scombinata à la Portishead di “Go in”, preludio ad un finale ammorbidito nel quale a prevalere sono la maliziosa oscurità di “Feeling alright”, l’elettronica leggera di “Drive” e l’essenziale, spoglia semplicità della conclusiva “Son”, ballata avulsa dal contesto e per ciò stesso deliziosa nella sua inattesa intimità. Qualunque ne sia il senso, questa musica inafferrabile ed inconsistente, che è forse soltanto l’update della dark-wave trent’anni dopo, si situa ad una distanza diametralmente opposta alla pop-music, intesa come veicolo di fruibile godibilità: lontana anni luce dall’esaltazione del bello, si tratta forse di musica atmosferica, suggestiva, evocativa, ermeticamente emozionale, figlia della sperimentazione colta, ma non estremizzata. Album privo di melodie memorabili, progressioni accattivanti o intuizioni particolarmente lodevoli, lavoro fondato su un’idea di musica fluida che non porta a nulla - non è chiaro se volutamente o meno -, “Warpaint” è apprezzabile come operazione intellettuale, assai meno come prodotto allettante: rimane, in ultima analisi, ascolto poco digeribile che finisce per non regalare quasi nulla al cuore nè all’anima, perso in una vacua rincorsa di misteriosi miraggi senza costrutto. Disco bifronte ed inconcludente, meritevole di giudizi estasiati o disgustati, senza che nè gli uni nè gli altri risultino eccessivi nè scandalosi. (Manuel Maverna)