recensioni dischi
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ZEN CIRCUS  "Canzoni contro la natura"
   (2014 )

Su un filo sottile, come equilibristi sospesi sopra il nulla, si muovono con insistita tenacia gli Zen Circus, assurti ad un livello di notorietà tale da poterli annoverare tra le realtà più in vista nel sottobosco indie del Bel Paese. L’iperproduttivo trio toscano è riuscito, cavalcando l’onda di un inatteso riscontro di pubblico e critica iniziato da “Villa inferno” del 2008, ed amplificatosi in coincidenza del passaggio all’italiano, a ritagliarsi una relativamente consistente fetta di celebrità puntando su un approccio ruvido e sfrontato e su una proposta non facilmente catalogabile nè ascrivibile ad una particolare corrente, genere o sottogenere, una proposta schietta a tal punto da sfumare talvolta il confine tra attitudine e creatività, tra foga e classe, tra urgenza e misura, tra riempitivi e buone canzoni. Smarrito cammin facendo parte del feroce sarcasmo che innervava di succosa linfa le tracce di “Andate tutti affanculo” e che corroborava “Nati per subire”, “Canzoni contro la natura” accantona lo humour caustico del recente passato e condensa in liriche non irresistibili un pastiche di fatalismo disilluso e pessimismo cosmico, con il consueto corollario di scoperto ateismo già annunciato nel proclama anthemico de “L’amorale”. Sulla scia del recente lavoro solista, Andrea Appino sputa sì veleno con l’abituale disgusto, ma è vipera e non cobra, e dopo l’iniziale infervorata accoppiata di stilettate (l’opener “Viva” sfiora la perfezione, testo iconoclasta, crescendo ritmico, bell’ingorgo finale; “Postumia” resta episodio di valore nonostante tenda già a flettere) il disco si infila in un cul-de-sac rischiarato unicamente dall’up-tempo balcanico (Elio docet) di “Vai vai vai!” e da sparute intuizioni, vanificate forse da un’eccessiva autoindulgenza. In fondo, Appino è un cantautore scontento e polemico, ma gli difettano la colta prospettiva di un Guccini o la cerebrale genialità di Faber (per scomodare mostri sacri), come la penna pungente di Brunori Sas o l’esistenzialismo traballante di Mirco Mariani, il piglio intellettuale di Alessandro Fiori o tantomeno il sardonico umorismo dell’immarcescibile Rino Gaetano, il cui fantasma cerca invano di aleggiare su queste canzoni dall’esile ossatura: Andrea e soci veleggiano su un mare piatto vergando un compitino da 6 in pagella nel quale le canzoni davvero interessanti – diciamo pure necessarie – si diradano in modo allarmante all’arido procedere dell’ascolto. Così, la title-track incespica su un chorus non irresistibile e si chiude – accadeva anche nel finale di “Andate tutti affanculo” – su un lungo inserto parlato (Pasolini che intervista Ungaretti, valida come citazione, ma forse non funzionale alla fruibilità del brano), la godibile “L’anarchico e il generale” offre una pedissequa eco della deandreiana “Il pescatore” (più plagio che omaggio), e laddove “Albero di tiglio” arranca su una coda strumentale inconcludente, “Mi son ritrovato vivo” riesce nella censurabile impresa di lasciarsi scordare già a metà del brano; i tre episodi conclusivi non aggiungono altro, nè con la prevedibile ballata chitarristica di “Dalì”, nè col testo elementare di “No way” (vicino al Vasco Rossi meno ispirato), nè tantomeno nella inutile chiusura di “Sestri Levante”, forse la traccia più debole di un album incerto, che suscita per larghi tratti legittimi dubbi sulle preoccupanti carenze del gruppo in fase compositiva. Rivedibile. (Manuel Maverna)