recensioni dischi
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IN ZAIRE  "White sun black sun"
   (2013 )

Fughiamo subito ogni dubbio a riguardo: gli In Zaire ci sanno fare, mica lapislazzuli, come chioserebbe Andrea G. Pinketts. Presenti in molte classifiche di fine anno, oggetto di dichiarazioni d’amore e lodi sperticate che ne incensano il dotto eclettismo, la prospettiva avanguardistica e la sagace, personale rilettura di almeno un paio di sottogeneri tanto in voga una ventina d’anni orsono, i quattro baldi giovani, tra i quali si segnala l’onnipresente ed attivissimo Stefano Pilia (Massimo Volume, Pilia & Spaccamonti), impastano ritmiche eterogenee, alchimie oscure e derive psichedeliche in un lavoro strumentale intriso – mi si perdoni l’ossimoro - di controllata passionalità. “White sun black sun” è dunque album ben concepito, congegnato, strutturato e prodotto; soprattutto è un tentativo non indifferente di sdoganare in patria un linguaggio musicale altrimenti poco utilizzato nel nostro Paese. Di positivo, oltre al nobile intento, c’è sicuramente una certa concisione dei brani: i ragazzi non cascano nella trappola/tentazione di dilatarli oltre misura come sovente accade in esperimenti di tal fatta. Il limite principale di un progetto comunque encomiabile potrebbe invece risiedere nel suo taglio artistoide, scevro sia di autentica emotività che di picchi creativi o idee realmente estrose. E’ una retropsichedelia ragionata fredda come il marmo, direi quasi – se già esistesse la definizione – “math-psych” anzichè “math-rock”, forma vs. sostanza, trame ben ordite – è vero – ma inconcludenti. La cura maniacale per il dettaglio, elemento che rischia inopinatamente di sfuocare il cuore di questa musica ad incastri, suscita un interrogativo d’obbligo: è davvero così improponibile sostenere un album di psichedelia strumentale senza necessariamente ricorrere a movimenti in crescendo e/o all’impiego di stilemi classici per il genere? Così, “Saturn” apre su una disarmonica aria percussiva tra il cameristico ed il barrettiano prima di infilarsi in una fuga acida e di soffocarsi nel prevedibile cul-de-sac di un crescendo (eccolo qua); “Jupiter” accosta echi space, suggestioni jazz e rumori di fondo, mentre “Mercury” gigioneggia addirittura su un passo funkeggiante che conduce ad una coda distorta avulsa dal contesto. “Mars” regala un curioso ibrido texano/orientaleggiante, tra scampanellii e slide guitar, “Moon” tenta di librarsi su una linea di basso incalzante e tastiere retrò, ma non approda a nulla che non sia l’intuizione ritmica su cui poggia, rinunciando ad individuare una linea portante; e la chiusura, affidata a “Sun”, non è altro che un ingorgo informe di dissonanze in cui fa capolino anche un lontano canto parlato, un bailamme indistinto che tuttavia rimane tale. Ben venga l’impegno, certo, ma siamo lontanissimi dalle vette espressive dei GY!BE, degli Explosions in the Sky, dei Mono, dei Mogwai, dei God is an Astronaut e compagnia (non) cantante: se tutti costoro materializzano magistralmente immagini, paesaggi, emozioni, suggestioni, visioni, gli In Zaire si limitano a riempire lo spazio di un brano con una sequenza di rumori, suoni ed accordi che non creano ansia, pathos, tensione, nervosismo, interesse, ma nemmeno impressioni di quiete, distensione, romantico trasporto, estatica trance o quant’altro. Che “White sun black sun” sia una ventata di aria nuova e fresca per l’Italia è un conto; che sia una intelligente, cerebrale, mirabile operazione è assodato. Che si tratti anche di un grande disco, beh, è tutto da stabilire. (Manuel Maverna)