recensioni dischi
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THE CURE  "The Cure"
   (2004 )

La band, abbandonata la storica etichetta Fiction, approda alla Geffen e firma, al dodicesimo album in studio, un lavoro omonimo, quasi a testimoniare l’intenzione di riaprire un nuovo ciclo, dopo che “Bloodflowers” aveva rappresentato il raggiungimento di vette altissime ed il miglior congedo dalla casa madre. La copertina è dedicata ai componenti della band, in un disegno infantile ed innocente (opera del nipote di Robert Smith) che, meglio di qualsiasi foto, raffigura i protagonisti. L’apertura è per “Lost”, una delle migliori tracce dell’intero lavoro. In un crescendo di ritmo e tensione, l’ascoltatore accompagna il leader nella disperata ricerca di sé stesso ('I can’t find myself' ripetuto all’infinito), in un pezzo collerico e chitarristico in cui Smith sputa tutta la sua rabbia. In “Labyrinth”, grazie all’affiatata sessione ritmica, padrona di casa è l’atmosfera, ed è facile percepire la desolazione che sta dietro la scoperta del significato delle cose che viviamo. Il clima si distende con le successive “Before three” e “The end of the world”. Quest’ultima, apripista dell’album, ha il merito di essere accompagnata da un video particolarmente indovinato, degno dei migliori girati dalla band. Il dark sound di “Anniversary” riporta a livelli altissimi “The cure”, con sonorità accostabili al capolavoro di “Disintegration”; mentre “Us or them” è un aggressivo e rabbioso viaggio psichedelico. “Alt.end”, sul versante easy, è una delle migliori esecuzioni del gruppo (paragonabile ad alcuni dei più noti hit del passato), capace di aprirsi alla melodia, ma conservando le coordinate del sound cure, già ampiamente rodato per le pop songs. Si continua sul versante easy con “I don’t know what’s going on” e “Taking off” (secondo singolo) e, ad anticipare il finale, con la suggestiva “Never”. A questo momento il gruppo intraprende la seconda odissea psichedelica, con la promessa di the “Promise”. Rabbia, chitarre stridenti, caos e desolazione, costituiscono il modo migliore per preparare l’ascoltare all’epilogo, attraverso un sound che può avere un diretto antenato nella psichedelica “The kiss”, targata 1987. Per l’ultima traccia, il gruppo sceglie “Going nowhere” e si ripiega su se stesso, in un brano che, musicalmente parlando, può essere considerato come un ripescaggio di “Bloodflowers”. La rabbia si è definitivamente placata e torna il terribile dubbio: dove stiamo andando? Il primo album per la Geffen ci consegna un gruppo in splendida forma che, ancora una volta, riesce a rendersi credibile, nonostante l’altissimo valore dei precedenti lavori in studio. Un album, questo, che, in sostanza, coniuga l’anima più dark a quella più leggera, unite dall’inconfondibile voce del profeta del buio che, anche nei capitoli più easy, non si dimentica di rammentaci che quello in cui viviamo “è sì un brillante e bellissimo mondo... solo dall’altra parte della porta”. (Gianmario Mattacheo)