PONEY EXPRESS "Palladium"
(2010 )
Benchè privata dell’aura di funerea introversione che l’ha sempre contraddistinta, l’ombra lunga di Robert Smith – ma non è la sola - aleggia e troneggia nella sua versione melanconica sulle dieci tracce del nuovo lavoro di Robin Feix (ex-bassista dei Louise Attaque) e Anna Berthe, alias Poney Express. Prendendo le distanze dal fai-da-te intimista e casalingo che aveva caratterizzato il lavoro di esordio (“Daisy Street”, bel disco comunque), e cambiato il volto del progetto con il passaggio ad una vera e propria band di quattro elementi, i ragazzi mutano rotta anche musicalmente con una virata improvvisa ed impronosticabile verso un sound che media la psichedelia dagli anni ’70 (evidente soprattutto grazie all’uso massiccio delle tastiere), le atmosfere tenebrose dei Cure e le linee di basso pulsanti dei Sisters of Mercy e in generale della dark-wave anni ’80. Le composizioni risultano godibili anche grazie ad una inattesa perizia (molto poco francese) nell’arricchire gli arrangiamenti apportando variazioni – seppure modeste - ai brani, il cui sviluppo perde linearità seguendo bizzarre spirali armoniche ed inusuali progressioni di accordi; le tastiere svolgono un ruolo fondamentale nel creare scenari apertamente psichedelici (nell’iniziale “Genesis” – elaboratamente congegnata – pare di ascoltare i Doors, mentre nel singolo “Palladium” fa capolino un synth-pop da Alphaville), dilatando il sound e spingendolo verso lidi inesplorati dal pop-rock francese contemporaneo. Purtroppo, il limite maggiore della proposta risiede nella vocalità inespressiva di Anna Berthe, che per dieci tracce si limita a sussurrare nel medesimo registro come una Carla Bruni qualsiasi, appiattendo le canzoni con interpretazioni che mancano totalmente di slancio, brio, rabbia, rassegnazione o quant’altro: non c’è furia nè disperazione nel timbro della bella Anna, che esegue il compitino senza strafare, ma soprattutto senza impressionare nè regalare a brani accattivanti la dimensione che meriterebbero. E’ il caso di “A la derive”, che formalmente rasenta l’eccellenza con una cadenza battente e metronomica che sarebbe piaciuta a Andrew Eldritch, basso lineare, frase di chitarra à la Cure, beat sintetico che pare quello di “A forest”, note distillate di piano e atmosferà blasè q.b. La successiva “Cocktail” prosegue sulla stessa linea, offrendo un compendio di arte eighties col pianoforte che pare rubato a “The caterpillar”, ed una serie di fastidiosi accordi diminuiti sparsi ad inquinare strofa e ritornello. E se “Brest” è addirittura vergognosamente (im)perdonabile nel plagiare tout court la “Plainsong” di Smith & soci, negli ultimi tre episodi la band prova ad interpretare sé stessa senza pagare tributi eccessivi a maestri e modelli: “Comme un zombie” perde la sfida stiracchiando un riff di chitarra, “Des roses” barcolla svagata azzeccando una bella melodia, sporcata ancora una volta da un accordo fuori posto, e bisogna attendere la conclusiva “Tu me tues” (ma soprattutto la ghost-track che la segue, il solo spunto davvero “francese” dell’album) per ritrovare un guizzo di classe cristallina dispensata tra fruscii di fondo, effetti vari ed un incedere che ricorda molto (anche troppo) gli Ultravox più accessibili. Disco piacevole, ritmicamente inarrestabile (è privo di episodi lenti), un frullatore che mescola evidentissime influenze più che dichiarate, offrendo alla fine pochi spunti autenticamente personali e più di un dubbio su come sarebbe stato se solo i quattro ragazzi avessero osato qualcosa in più. (Manuel Maverna)