HELMET "Betty"
(1994 )
Gli Helmet di Page Hamilton – mente disturbata dietro una faccia pulita da impiegato del catasto - hanno sempre vissuto in un cul de sac, un buco nero senza via d'uscita anche quando uno spiraglio di luce sembrava aver fatto capolino dal cuore di tenebra di "Aftertaste", tre anni più tardi. "Betty" è il terzo album di questa incostante band newyorchese, disco che fa seguito all'esordio terrificante di "Strap it on" (un concentrato di violenza allo stato brado, grezzo ed efferato) ed al dubbio passo laterale di "Meantime", album considerato dai più come il loro migliore lavoro, ferocia annegata nella consueta follia noise. “Betty” inietta l’usuale dose di odio tout court in un tessuto armonicamente scarno – altro tratto caratteristico della non-musica degli Helmet – sorreggendo brani inascoltabili con liriche ermetiche al limite del nonsense; l’inascoltabilità non è frutto questa volta (come in “Strap it on”) dell’uso assassino delle chitarre, bensì dell’accanita, ostinata (e sterile) sperimentazione sui tempi. Le canzoni sono tutte simili, ugualmente spigolose e costruite attorno a riff pesantissimi della chitarra di Hamilton: mentre il basso e la prima chitarra (suonata sui bassi) eseguono fastidiosissime frasi disarmoniche ma consonanti, la batteria (il divino John Stanier) tiene un tempo differente, con Hamilton che canta in controtempo seguendo il doppio riff tra sincopi e staccati continui, in un bailamme incessante di microfratture sonore. Non ci sono ritornelli, non ci sono melodie, con rare eccezioni, nessuna delle quali così vicina alla forma-canzone tradizionale: c’è una sorta di refrain nell’iniziale “Wilma’s rainbow”, dilaniata dalla seconda chitarra di Echeverria dopo una sequenza micidiale di inserti deraglianti, c’è addirittura un abbozzo di singalong sostenibile in “Speechless” (che – si badi bene – è la traccia numero 11) ed un ritmo danzereccio in “Biscuits for smut”, che viene comunque scossa da un rimbombo tellurico e dalla voce sinistramente filtrata di Hamilton. Sorprende il breve strumentale “Beautiful love” che si apre con una deliziosa melodia di chitarra jazz prima di deflagrare in una jam rumorista alla John Zorn, così come spiazzanti sono il dub gracchiante di “The silver hawaiian” ed il blues scordato e fuori giri di “Sam Hell” che chiude il disco: ma nel mezzo si vaga confusi in un deserto armonico fatto di cadenze metronomicamente asimmetriche e suoni oscuri propulsi da un canto sempre trucemente sgraziato (“I know”, “Vaccination”) e spesso maniacale (“Tic”). Sia che il ritmo acceleri leggermente (“Milquetoast”), sia che rallenti ad un passo infernale (“Street crab”), lo sferragliare spettrale che attanaglia l’intero lavoro non cessa mai, creando una persistente sensazione di disagio che rende questo disco l’antitesi della piacevolezza. (Manuel Maverna)