AFGHAN WHIGS "Gentlemen"
(1993 )
Album struggente, graffiante, tesissimo, ibrido inesplicabile di blues stravolto e contrappunti chitarristici tipicamente indie, “Gentlemen”, opera quarta degli Afghan Whigs da Cincinnati, Ohio, è un drammatico compendio sulle molte incongruenze dei rapporti amorosi e sulla ineluttabile fragilità umana. Con vocalità furente, straziata e infervorata ai limiti del parossismo, un ispirato ed indemoniato Greg Dulli interpreta con sentita ferocia ed istrionico trasporto storie di incomprensioni e laceranti abbandoni, di debolezze insanabili ed errori fatali, impennandosi visceralmente al limite della stecca, sempre rigonfio di sfibrante passionalità. Propulsi da una sezione ritmica fratturata e serratissima, i quattro brani posti all'inizio del disco costituiscono una sequenza micidiale, dal biglietto da visita di "If I were going" alla morte dei sentimenti cantata in "Be sweet", dalla triste follia di "Debonair" all'urlo disperato della title-track. Più avanti la furia a tratti si placa su qualche blues più tradizionale ("My curse", "What jail is like"), per impennarsi nuovamente nella malata storia di alcoolismo di "Fountain and Fairfax", dilaniata da un dialogo fremente tra le due chitarre, e nella dolente confessione di "Now you know", fino all'epilogo strumentale che chiude l'opera. Lavoro di prorompente, strabordante intensità, la cui forza è accresciuta dalla rabbiosa veemenza con la quale Greg Dulli interpreta ogni sillaba come fosse l’ultimo rantolo di una vita intera; album irresistibile dal principio alla fine, una sberla in pieno volto capace di inchiodarti al verso successivo, al prossimo grido, al prossimo fallimento di cui cantare. (Manuel Maverna)