BLONDE REDHEAD "Misery is a butterfly"
(2004 )
Anni fa un caro amico mi invitò ad assistere ad un concerto dei Blonde Redhead in una calda serata di luglio nella pittoresca cornice di una villa rinascimentale; bastarono un paio di brani per trovarmi stregato dalla malìa di questo bizarro trio italo-americano-nipponico (per la precisione i gemelli di origini italiane Amedeo e Simone Pace e la multistrumentista giapponese Kazu Makino) che cesellava melodie tristissime rivitalizzandole con arrangiamenti alquanto colti ed insoliti. Al canto si alternavano l'inquietante musa nipponica e Simone, entrambi dotati di una vocalità inusuale, giocata su un registro acuto complessivamente non piacevole, con il corredo di armonie raffinate dipanate in intrecci complessi: l'insieme era stordente, come stordente e ricco di fascino è questo "Misery is a butterfly", album che contribuì a consacrare la fama elitaria della band. Rispetto ai lavori precedenti, i ritmi rallentano e le atmosfere divengono rarefatte; su tutto aleggia uno spettrale alone di struggente malinconia che guida, ingannevole e mellifluo, brani soffici spesso incentrati su tonalità minori e ritmi zoppicanti. I primi cinque pezzi ("Elephant woman" in apertura è già da brividi) sono altrettante litanie estatiche, intrise di una mestizia misteriosa e profondissima, espressa con sfumature minimali che li rendono molto simili tra loro, quasi a comporre un mantra catartico. Il ritmo si impenna appena nello splendore di "Falling man", che nonostante indugi in una falsa apertura pop cela tuttavia trappole ritmiche ed anfratti ingannevoli (il giro aperto fino all'ultima - finalmente chiusa - ripetizione), per poi riprecipitare in un baratro morbido fino all'epilogo nevrotico di "Equus". Insolito esempio di etereo gruppo indie da camera, artefice di un disco ideale per l’ascolto notturno, intimo e raccolto, caratterizzato da una tormentata dolcezza appena screziata dal passo ondivago delle chitarre e da una struggente melanconia. (Manuel Maverna)