THE STRANGLERS "Black and white"
(1978 )
Mentre riascoltavo per l’ennesima volta questo capolavoro, partorito oltre trent’anni fa da quattro geniali menti figlie d’Albione, pensavo a quanta influenza gli Stranglers abbiano avuto sulle nuove generazioni di brit-poppers - o sedicenti tali - che nell’ultimo decennio hanno rivitalizzato la scena indie d’oltremanica. Dagli scozzesi Franz Ferdinand agli Arctic Monkeys, dagli Editors ai Killers passando per Pete Doherty, il florilegio occulto di stile e sonorità appare in tutta la sua evidenza, e non fa che accrescere ulteriormente – se mai ve ne fosse bisogno – la statura già colossale di questa band di pionieri che seppero sublimare il post-punk a livelli di perfezione assoluta. Vari gli elementi che colpiscono con la veemenza di un diretto in pieno viso, dal ritmo scomposto e ricomposto in cadenze spesso bizzarre (“Curfew” e “Do you wanna” sono solo due esempi, ma in generale tutti i brani sembrano impazzire in direzioni imprevedibili) al sound mostruoso per potenza, profondità e rotondità del basso di JJ Burnel, il cui stile avrebbe segnato un punto di partenza per generazioni di epigoni negli anni a venire; e ancora le aperture tastieristiche (memorabili quelle di “Tank” e di “Enough time”) tra il progressive e l’avanguardia di Dave Greenfield riescono ad arricchire ed a trafiggere canzoni che rappresentano, ciascuna coi suoi tre minuti scarsi, un compendio enciclopedico di idee ed intuizioni esplosive. Ogni traccia deflagra con violenza esplicita – una violenza tutta contenuta nel tono beffardo, sinistro e omicida di Hugh Cornwell che interpreta con sapiente ferocia testi tra il surreale, il macabro e l’intimista – truccando piccoli anthem pop con copiosità di espedienti ed una infinita ricchezza di soluzioni, sempre ad un passo dalla dissonanza e ad un centimetro dalla follia pura: “Nice n’ sleazy” indovina tutto, dal battito spezzato al riff di basso, dal levare quasi reggae della chitarra alla progressione armonica, “Toiler on the sea” velocizza il ritmo ma cambia di continuo la direzione melodica, come fossero tre canzoni in una, “Outside Tokyo” traballa a ritmo di valzer su un refrain di organetto, "Death and night and blood" azzecca un impensabile ritornello da classifica, mentre “Sweden” si getta a capofitto in un marasma di clangori inquietanti e “Threatened” gigioneggia su un’esitazione claustrofobica. Inesauribile fonte di ispirazione, questo disco è una pietra miliare, un martellamento incessante, un treno lanciato a folle velocità da un macchinista pazzo che prova autentico piacere nel compiere l'insano gesto. Monumentale e seminale. (Manuel Maverna)