recensioni dischi
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MARILYN MANSON  "Holy wood"
   (2000 )

Operazione non semplice per alcuno quella di realizzare un disco di diciannove canzoni e settanta minuti, specie muovendosi in un genere come il metal (truccato finchè si vuole, ma sempre metal è) e chiamandosi Marilyn Manson. Soprattutto non è facile per i tanti ascoltatori distratti credere che il signor Warner sappia anche scrivere canzoni, molte delle quali rimangono del tutto sconosciute ai più. “Holy wood” è il quarto, monumentale capitolo della saga del Reverendo, qui già alle soglie della sua parabola discendente, eppure perfettamente in grado di ordire l’ennesima trama noir stendendo il suo logoro sudario su un abisso di tetra disperazione. E non fosse per l’inevitabile ripetitività e per il ricorso sfibrante ad una serie di prevedibili clichè (l’alternanza ossessiva tra bisbigliare sinistro e grida laceranti, l’abuso di riff metal di matrice tradizionale, la distorsione spinta al massimo sui ritornelli, le progressioni armoniche piuttosto scontate), questo sarebbe un lavoro decisamente apprezzabile per l’innegabile impegno profuso e per la capacità di conservare intatta una tensione oscura e primitiva. Su tutto aleggia un palpabile, fastidioso e snervante senso di morte, di decadenza, di corruzione morale e di malcostume imperante, una cortina di malvagità dispensata a piene mani in tracce feroci e politicamente scorrette, un alito gelido che erige muraglie funeree di rumore stordente mentre Manson recita implacabile la sua litania satanica. L’interpretazione è sempre sopra le righe, sia che si tramuti in urla omicide (“Disposable teens”, che è solo una minima variazione rispetto a “The beautiful people”, ma anche e soprattutto la folle accelerazione à la Ministry di “Burning flag” o la cadenza assassina di “The death song”), sia che si ponga al servizio di ben costruiti pezzi rock (“The love song” o gli anthem “The fight song” e “The nobodies”), sia che indulga in lente ballate spettrali (“In the shadow of the valley of death”), sia ancora che scimmiotti Reznor giocando con l’elettronica (singolare “Godeatgod” che apre il disco su due minuti e mezzo di quiete prima dell’esplosione di violenza che introduce), sia infine che tenti qualche sortita nella psichedelia (“Cruci-fiction in space” con un finale languidamente sospeso e volutamente inconcluso, o l’ottima “A place in the dirt” con una strofa deliziosa rovinata da un ritornello sbagliato). Quando il ritmo rallenta e le atmosfere perdono ferocia, Manson riesce ad essere più autentico del clown che impersona negli altri teatrali sketch del suo circo, come se si levasse dal volto il pesante trucco e tornasse ad essere l’anima tormentata che davvero è, una figura allucinata che emerge da una coltre di nebbia in una notte scura. E’ smarrimento, perdita e frustrante fallimento, sentimenti negativi centrifugati in una cieca disillusione sputata nel fango in un registro gutturale e monocorde; la conclusione del disco è un maelstrom, un buco nero fatto di quattro brani nei quali la furia sembra placarsi raggomitolandosi su sé stessa, come un teatro di rivista rimasto vuoto mentre l’ultimo guitto recita la sua commedia fino alla fine. (Manuel Maverna)