recensioni dischi
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MARILYN MANSON  "Mechanical animals"
   (1998 )

Il problema principale di Marilyn Manson – sempre che di problema si tratti – risiede da sempre nella innegabile prevalenza della sua immagine borderline sulla sua musica. Troppo difficile disgiungere i due aspetti conferendo alle canzoni del signor Warner lo status di buone canzoni che spesso meriterebbero, troppo facile arginarne la credibilità additando a pretesto il look truculento e demoniaco, quel look volutamente ostentato come manifesto sovversivo contro il falso buoncostume sociale americano da sempre bersaglio preferito del Reverendo. “Mechanical animals” è il difficile sequel di “Antichrist superstar”, ed è lavoro largamente mondato dagli eccessi grandguignoleschi che in parte caratterizzavano quell’album, sebbene risulti ancora rivestito di un malsano, viscerale, ineludibile manto di decadenza che aleggia spettrale su questa musica dolente. Accanto ai tradizionali anthem mansoniani (la pacchiana “Rock is dead”, “Posthuman”, “I want to disappear”, la brutta ed inutile “User friendly”) troviamo in “Mechanical animals” inattese incursioni in territori inesplorati prima: c’è del blues (il noto singolo “The dope show” col suo incedere saltellante), addirittura della disco (l’altro singolo “I don’t like the drugs” con un finale spiritual), e c’è soprattutto molta psichedelia. C’è nella palpitante “Great big white world”, che apre il disco su una mirabile architettura sonora, o ancora nella splendida title-track, o nell’altrettanto pregevole ballata di “The speed of pain”, con tanto di coro gospel che richiama i Pink Floyd del periodo seventies; ne rimangono tracce significative nell’incipit di “Coma white” e nella riflessiva “Disassociative”, impreziosite da interpretazioni di Manson più misurate ed equlibrate che mai. Quello stesso Manson che, spiazzando l’uditorio, pare trasformarsi in un elegante crooner quando intona l’improbabile, addirittura toccante lentaccio terzinato anni ’50 di “Fundamentally loathsome”. Disco discretamente considerato dalla critica, ma non sufficientemente apprezzato dai fan della prima ora, troppo intenti a declassarlo a mezzo passo falso – considerazione inevitabile dopo la sbornia di violenza di “Antichrist” - per potersi lucidamente avvedere della sua sorprendente maturità. (Manuel Maverna)