recensioni dischi
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CESARE BASILE  "Hellequin song"
   (2006 )

Cesare Basile è autore intelligente, colto, sottovalutato e poco allineato. Il cantautore catanese, in attività da oltre quindici anni, forte del sodalizio col guru John Parish, qui in veste di produttore e strumentista occasionale, propone una intrigante rilettura del blues in chiave estremamente personale. Il calore primigenio del blues viene stemperato e raffreddato dall’incedere cupamente sinistro di ballate trattenute e sofferenti, intrise di un palpabile ermetismo nei testi e contrappuntate da sonorità oscure e fosche. Meno palpitante di Nick Cave e meno sciamanico di Tom Waits, Cesare mantiene comunque un buon livello di scrittura nonostante non si ponga come grande interprete: il tono vocale resta neutro, come chi canti brani altrui senza trasporto, in un registro piuttosto piatto e recitativo, dimesso, sottotono. Più che il fluire del canto, vengono invece caricati di intensità singoli versi, addirittura singole parole per conferire un tono dolente alla narrazione frammentaria di stati d’animo contorti; è un intimismo impenetrabile, spesso e denso come olio, una faticosa ascesa ad una collina (perché montagna non è) grigia in una giornata di pioggia. Con rare eccezioni (il caravanserraglio bandistico de “Il deserto” o la relativamente più semplice “Le feste di ieri”), aleggia su tutto il lavoro un senso di tetraggine che lo esalta e lo rende al contempo fastidioso (il brano di apertura, “Dal cranio”, ne è un esempio perfetto, col suo passo scandito e la chitarra stoppata in una tonalità indefinita), spinoso, indigeribile. Passano sullo schermo il sentimento contorto e toccante di “Usa tutto l’amore che porto” e la rabbia compressa di “Fratello gentile”, come la spettrale atmosfera della title-track e il fango di “Finito questo”: peccato che il climax raggiunto dai brani in italiano sia fiaccato ed indebolito (ma è un’opinione personale) dai troppi episodi in lingua inglese. Disco cerebrale che vuole essere tale, e trova nel suo taglio elitario il limite più evidente. (Manuel Maverna)