recensioni dischi
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SANTO NIENTE  "Mare tranquillitatis"
   (2013 )

Questo disco mi farà disperare per lungo tempo, al pensiero opprimente di come avrebbe potrebbe essere se soltanto Umberto Palazzo, al quale voglio bene da una ventina d’anni, non avesse deciso di ucciderlo con una decisione scellerata. La decisione folle – ma perchè, Umberto, perchè? - è quella di rinunciare a cantare in quattro delle sei tracce dell’album, preferendo declamare i testi come se si trattasse di un disco dei Massimo Volume; ma di Massimo Volume non ce ne possono essere altri, caro il mio Umberto, e di Mimì ce n’è uno solo, che basta e avanza, e dovresti ben saperlo. E’ la maledizione – o la benedizione - dei Massimo Volume: non poter generare una progenie, non poter essere presi a modello se non da pazzi suicidi che si autocondannino all’ingrato ruolo di cloni, a meno di riuscire ad affrancarsi in qualche modo dall’ombra ingombrante di Emidio Clementi. In pochi ci hanno provato, quasi nessuno ci è riuscito: forse soltanto Max Collini con gli Offlaga Disco Pax ha trovato una strada parallela, sostituendo le chitarre con l’elettronica, ma la maledizione è sempre incombente, e le vie di uscita dal cul-de-sac rigorosamente sbarrate. Il Santo Niente, creatura di Umberto Palazzo all’indomani della rottura del sodalizio con Clementi all’inizio degli anni ’90, è il veicolo espressivo del quale l’angelo ribelle si è servito nell’arco di vent’anni come e quando lo ha desiderato, resuscitando moniker e idee ad ogni nuovo passo, rinascendo inatteso dopo svariate morti apparenti. Dal debutto urticante di “La vita è facile” alle asperità di “Seinarumonowanai”, dall’incerto ritorno di “Il fiore dell’agave” - dopo otto anni di assenza - allo splendido lavoro solista di “Canzoni della notte e della controra”, gemma avulsa da ogni logica, Palazzo ha disseminato qua e là oscure tracce più simili a detriti che a diamanti grezzi, senza mai smarrire un grammo di quella sfrontata coerenza artistica che lo ha sempre contraddistinto. Ad altri otto anni da “Il fiore dell’agave”, Umberto licenzia questo album figlio sicuramente di attenta e meditata riflessione, un lavoro sì pensato, calibrato, scritto e arrangiato con cura maniacale, ma anche un’opera che – giocoforza – è condannata a dividere estimatori e detrattori con una cesura netta. Sì, perché l’incipit è da far tremare i polsi: “Cristo nel cemento”, cadenza rallentata e assassina, basso tellurico e dissonanze lancinanti, è un brano che rasenta la perfezione stilistica in puro stile Santo Niente, una sassata di inusitata violenza che promette fuoco e fiamme; “Le ragazze italiane” che la segue, al di là del titolo orrido è una rasoiata di garage-rock al vetriolo degna della Blues Explosion (quella vera), roba sporca come si conviene all’Umberto Palazzo d’antan. E fin qui tutto bene. Ma le cose – ahimè - iniziano a non andare per il verso giusto con “Un certo tipo di problema”, che rinuncia alle chitarre abrasive dei primi due brani per rifugiarsi nel resoconto di una storia malavitosa priva di mordente, seppure corredata da un buon tema. Sorpresa: qui Umberto non canta, bensì recita piatto come un Clementi meno ispirato. Lo stesso accade nella luminosa, straziata ballata stralunata di “Maria Callas”, il cui splendore (ripeto: splendore) viene vanificato dalla rinuncia a sottolineare un brano così bello con un canto capace di valorizzarne ogni più recondito anfratto. Non serve a nulla trasformarla in un reading tanto scialbo quanto inessenziale: la reiterazione “Questa è Maria Callas/che muore/per i vostri peccati” è toccante e tragicamente dolente, ma non risalta come dovrebbe, castrata dalla pacatezza espressiva di Umberto, che non fa nulla se non declamarla come declamerebbe il bugiardino della tachipirina. Di male in peggio, perché gli undici minuti di “Primo sangue” si muovono nello stesso solco, con addirittura qualche vizio in più. La storia narrata non è interessante ed il sottofondo musicale è semplicemente allungato come un brodo insipido, su un esile giro debolmente contrappuntato da un feedback chitarristico fin troppo timido per imporsi sulla base tecno che la sorregge: per un tempo interminabile, specie nella inutile parte centrale, il brano si ripete identico a sé stesso senza che accada nulla in termini di crescendo o di sviluppo, prima della reprise della narrazione. L’impianto complessivo vorrebbe forse essere un supporto audio alla storia “visiva” raccontata, ma risulta solo una inconcludente lungaggine senza verve, del tutto priva di appeal. Per fortuna arriva il tenue rumorismo jazzato, tra avantgarde e minimalismo, della conclusiva “Sabato Simon Rodia”: il tappeto sonoro è calzante rispetto al bignami biografico del celebre architetto “off” italo-americano, ed in un’oasi di straniante non-musica riesce a raccontare una vita attraverso un prisma deformante che, paradossalmente, resuscita l’album con l’arzigogolo più complesso dell’intera raccolta. Disco eccellente per scrittura, svilito dalla scelta scriteriata – ma è un’opinione personale – di interpretarlo in modo quantomeno discutibile. Caso rarissimo di disco bello e sbagliato. Ma anche questa è un’opinione del tutto personale. (Manuel Maverna)